Dalla Statua della libertà all’intifada: ecco Mamdani

· 4 Novembre 2025


Cari ascoltatori, domani New York potrebbe svegliarsi con un sindaco musulmano: il favorito per la vittoria è il candidato democratico che ha vinto le primarie, Zohran Mamdani, che se la dovrà vedere con l’ex governatore Andrew Cuomo, il quale ha perso le primarie e si è presentato come indipendente, perché non si riconosce nell’agenda radicale e socialista di Mamdani. Il candidato repubblicano Curtis Sliwa dai sondaggi risulta staccato, tanto che Trump oggi ha dichiarato che un cattivo democratico è sempre meglio di un comunista, cioè che Cuomo è il male minore.

Mamdani è un socialista radicale che si è riconosciuto nell’agenda di Bernie Sanders: propone trasporto pubblico gratuito, quindi a spese del contribuente newyorkese, e di calmierare gli affitti, insomma sussidi a pioggia, secondo una ricetta dirigista lontana dall’alfabeto che ha reso grandi New York e l’America. Ma non è questo il vero problema.

Il problema è sulla questione islamica, e non intendiamo la religione di Mamdani in quanto musulmano. Il punto è: quale tipo di islam, quale tipo di linguaggio ha scelto Mamdani, in che posizioni si è riconosciuto? Alcuni indicatori li abbiamo. Qualche settimana fa, ha fatto scalpore il suo rifiuto di condannare lo slogan “globalizza l’intifada”, sostenendo che intifada significa semplicemente resistenza (somiglia tanto al verbo pro-pal di casa nostra, che straparla di resistenza quando, per esempio, parla delle canaglie di Hamas), perfino associando l’intifada alla rivolta del ghetto di Varsavia, con sfregio della memoria, della storia, della cultura ebraica. Eppure l’intifada non è una questione accademica, da salotti di Manhattan, ma consiste nell’aggressione sistematica dei civili con i coltelli o con gli attentati, l’attacco agli ebrei quanto ebrei in nome della rivoluzione islamica.

Non solo: Mamdani ha tenuto uno degli ultimi comizi della sua campagna nella moschea di Masjid At-Taqwa, nel cuore di Brooklyn, una delle più frequentate di New York, che ha una storia non confortante. È guidata da Siraj Wahhaj, figura tra le più controverse dell’islam americano. Il suo nome compariva trent’anni fa in un elenco di persone sospettate per aver cospirato nel primo attentato al World Trade Center, nel 1993; lui stesso prese posizione a favore degli attentatori. Non sappiamo se l’11 settembre abbia gioito, ma di sicuro la sua predicazione è fortemente identitaria.

Wahhaj è intervenuto a favore di Mamdani: “Riuscite a immaginare cosa succederebbe se 800mila musulmani decidessero di marciare ogni giorno? Non ve lo dico!” E ha aggiunto: “Voglio tornare a raggiungere le masse come facevamo nella cosiddetta Nazione dell’islam”. Poi Mamdani è salito sul palco e ha affermato, sicuro, che New York avrà il primo sindaco musulmano. New York è la città di Ground zero, figlia del peggior attentato islamista della storia, che ha ucciso 3mila americani, in gran parte newyorkesi. Quindi, attenzione ai cortocircuiti simbolici. New York è la città della Statua della Libertà, è la capitale del mondo libero, la città più importante d’America. Il fatto è che la sua agenda ormai è scollegata dall’America profonda, diffusa, che invece ha scelto Donald Trump. New York ha comunque un impatto simbolico enorme: la città dell’11 settembre rischia di avere un sindaco che non condanna l’intifada e che ha tenuto il suo comizio chiave in una moschea chiacchierata, con un passato di figure borderline vicine a ambienti fondamentalisti, forse anche coinvolte in attentati.

Capite allora che il problema non è il calo degli affitti, i sussidi o il bus gratis. Il problema è il cortocircuito: potrebbe essere che da domani ogni uomo libero, quando gira la testa e guarda verso la città della statua della libertà, non sappia più che cosa sta guardando.


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