Eurosoviet, no grazie: meno Draghi e più Thatcher

· 19 Febbraio 2025


Cari ascoltatori, giornaloni e intellettualini sono tutti in brodo di giuggiole, in piena commentatio apologetica per il discorso che Mario Draghi ha tenuto all’European Parliamentary Week, che riunisce esponenti dei Parlamenti nazionali da tutta Europa, con cui ha “sferzato l’Unione europea”. In effetti anche a noi è sembrato un discorso perfetto, ma nel senso che sintetizza in modo insuperabile la direzione verso cui il Vecchio continente non deve andare se non vuole portare a termine il proprio suicidio.

È vero che Draghi sferza un certo immobilismo e una certa inadeguatezza della classe dirigente europea, d’altronde non è certo uno che timbra il cartellino, è sicuramente più reattivo e propositivo dell’eurocrate medio: peccato che vada tutto nella direzione sbagliata. Ne riportiamo uno stralcio significativo: “Dobbiamo abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sull’equity”. Cioè dovremmo livellare, mortificare le differenze, standardizzare ancora di più? Queste sono parole che odorano di sovietico, di iperdirigista, indirizzate a negare la pluralità e il pluralismo che hanno fatto la storia dell’Europa e dei popoli europei. Draghi non ha il difetto della reticenza, ed è andato fino in fondo: “Per far fronte a queste sfide è sempre più chiaro che dobbiamo agire come se fossimo un unico Stato”. Il guru dell’europeismo mainstream sta teorizzando il super Stato europeo.

Allora, oggi come sempre, a Mario Draghi bisogna contrapporre lo straordinario discorso che fece Margaret Thatcher al Collegio d’Europa di Bruges, la scuola di formazione dell’eurocrazia: è esattamente il negativo fotografico dell’ottica di Draghi, è la rivendicazione liberale, plurale, dialettica, democratica, saldata nel consenso dei popoli, di un’altra visione d’Europa. I termini usati sono gli stessi, ma con il segno opposto davanti a ogni parola.

Disse la Thatcher: “Lavorare a più stretto contatto non richiede che il potere sia centralizzato a Bruxelles o che le decisioni siano prese da una burocrazia designata. Anzi, è ironico che proprio quando i Paesi come l’Unione Sovietica, che hanno cercato di fare tutto in modo centralizzato, stanno imparando che il successo dipende dal potere disperso e dalle decisioni prese lontane dal centro, ci siano alcuni nella Comunità che sembrano voler muoversi in direzione opposta”.

Insomma, Draghi è una sorta di tecnocrate post-sovietico appartenente all’élite tecnofinanziaria, mentalmente e culturalmente è ancora là. E ancora la Thatcher, con termini incredibilmente simili e opposti: “Non abbiamo fatto arretrare con successo le frontiere dello Stato in Gran Bretagna solo per vederle reimposte a livello europeo, con un super Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”. Questo invece è esattamente quello che vuole Draghi, un super Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles.

Tutto quello che è accaduto tra questo grande discorso del 1988 e quello di Draghi in queste ore è un dettaglio, sotto il profilo delle visioni in campo sull’Europa, che erano, sono e saranno sempre sostanzialmente due: muoversi come un unico Stato, ricetta Draghi, o in alternativa opporsi al super Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles, in nome della libertà dei popoli europei. E noi ieri, oggi e anche domani, affermiamo che serve meno Draghi e più Thatcher.


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