Quel che Draghi non ha detto (ma la Thatcher sì)
Giovanni Sallusti · 10 Settembre 2024
Cari ascoltatori, oggi è tutto un innalzare lodi e peana al report che Mario Draghi ha condiviso con la Commissione europea sulle magnifiche sorti progressive del continente. Intendiamoci, rispetto all’euroburocrate medio, Mario Draghi è altra cosa, per curriculum, capacità di relazione, visione: e ha ragione quando dice che l’Europa deve rimettere al centro la produttività, la difesa e l’espansione della sua industria, non farsi stritolare come un vaso di coccio tra gli Stati Uniti e la Cina, e ha ragione quando dice che l’Europa è drammaticamente indietro sul fronte dell’innovazione tecnologica.
Il problema sta in quello che Draghi non ha detto, perché il suo discorso è poggiato nel solco dell’attuale asset dell’Unione: ha spiegato come si potrebbe gestire meglio, con priorità politiche chiare, ma non ha messo in discussione il progetto europeo così com’è, che invece a nostro giudizio è proprio il problema. Il vizio è nel manico, nell’ottica con cui questo progetto è stato costruito e difeso, sostanzialmente all’insegna di due direttrici, che Margaret Thatcher già alla fine degli anni Ottanta aveva capito essere deleterie.
Le due parole d’ordine sono centralismo e dirigismo, e sono due vizi in cui lo stesso Draghi sembra cadere. Allora consigliamo, come ideale contraltare al report di Draghi (un suggerimento che dà oggi anche il direttore editoriale di Libero, Daniele Capezzone), la rilettura del formidabile discorso che Margaret Thatcher tenne il 20 settembre 1988 al collegio d’Europa di Bruges, nella tana dell’eurocrazia, dove spiegò la sua visione, l’altra possibilità di Europa.
Vi propongo solo qualche riga significativa: “Lavorare a più stretto contatto non richiede che il potere sia centralizzato a Bruxelles o che le decisioni siano prese da una burocrazia designata. Anzi, è ironico che, proprio quando i Paesi, come l’Unione Sovietica, che hanno cercato di fare tutto in modo centralizzato, stanno imparando che il successo dipende dal potere disperso e dalle decisioni prese lontano dal centro, ci siano alcuni nella Comunità che sembrano voler muoversi nella direzione opposta. Non abbiamo fatto arretrare con successo le frontiere dello Stato in Gran Bretagna, solo per vederle reimposte a livello europeo con un super-Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.
L’ottica attuale, quella del super-Stato, non solo Draghi non la mette in discussione, ma vuole portarla fino in fondo, accelerare: vuole togliere ulteriore peso agli Stati-nazione che hanno fatto l’Europa come la conosciamo, libera e plurale, il continente-culla di concetti come la dignità della persona e la libertà individuale. Draghi vuole invece il dominio di un super Leviatano. L’altro modello veniva così definito dalla Lady di Ferro: “la necessità di politiche comunitarie che incoraggino il fare impresa”. Questa è la chiave a nostro avviso, se l’Europa vuole prosperare e creare i posti di lavoro del futuro, non le grandi narrazioni costruttiviste, e neanche le grandi teste d’uovo come Draghi che si mettono a stendere una sorta di cronoprogramma per il futuro del continente. Noi vorremmo invece farla finita con questa corsa a più strutture, più norme, più dirigismo: ne vogliamo meno, la parola d’ordine è togliere, e così incoraggiare appunto il fare impresa. È l’altra Europa possibile, ed è quello che non ha detto Mario Draghi.