Odiano la libertà: Rampini nel mirino delle Brigate Kamala
Giovanni Sallusti · 25 Luglio 2024
Cari ascoltatori, questa mattina vorrei lanciare un appello sincero: salvate il soldato Rampini. Esatto, Federico Rampini, editorialista e inviato del Corriere della Sera dagli Stati Uniti (qui la nostra recente chiacchierata con lui), sicuramente uno dei maggiori conoscitori di America nel panorama giornalistico e intellettuale italiano.
Rampini non solo conosce l’America sul campo, non solo l’ha frequentata in tutte le sue sfumature e contraddizioni, ma padroneggia le categorie intellettuali per interpretarla, padroneggia la storia americana, la politica americana, la diversità antropologica americana: per questo è uno dei maggiori raccontatori contemporanei degli States. Bene, Rampini in questi giorni è oggetto di un bombardamento social. L’economista Riccardo Puglisi su X ha parlato di una vera e propria fatwa contro di lui, e non è lontano dal vero. La colpa di Rampini è essersi permesso di non partecipare al processo di beatificazione collettiva di Kamala Harris: anzi, ha fatto delle annotazioni critiche non banali, è andato al di là del copia&incolla del Giornalista Collettivo. Ricordo che Rampini ha una storia chiaramente di sinistra, ha dichiarato più volte di non aver votato Donald Trump, ma si è sempre rifiutato di buttare il cervello all’ammasso woke, è rimasto lontano dal conformismo politicamente corretto. Piuttosto, ne ha fatto l’oggetto di un’indagine critica. È uno che ha il vizio di pensare.
Allora, i social si sono scatenati: Mario Del Pero, docente di Storia internazionale, scrive “che si faccia passare per giornalismo, e pure di qualità, la propaganda politica più greve è una delle tante tragedie della nostra informazione sugli Stati Uniti”; poi sono comparsi gli odiatori diffusi, “Rampini il giornalista più sopravvalutato di sempre”; c’è chi lancia petizioni per il suo licenziamento dal Corriere; chi sostiene che a questo punto il suo giornale darà l’endorsement a Trump; Nicola Melloni di Micromega grida alla vergona perché Rampini ha criticato la “race theory”, uno degli asset woke che legge la storia occidentale solo in chiave di discriminazione delle minoranze.
Che cosa Rampini ha detto, per muovere un tale ringhio collettivo? Ha detto cose interessanti e feconde: per esempio, che Kamala Harris è stata più attenta a criticare l’America che a esaltarla come terra di opportunità, ma la storia dei suoi genitori, quindi la sua, è segnata dai benefici della meritocrazia, non dai danni del razzismo. La storia della famiglia di Kamala contraddice l’armamentario di luoghi comuni woke che lei incarna. Ha poi detto un’altra cosa abbastanza evidente: occhio Kamala, perché George Soros, miliardi e popstar non bastano per vincere le elezioni. Kamala deve rapidamente diventare capace di parlare agli operai del Midwest, nel quale ci sono peraltro molti Stati ballerini, il cui voto è incerto. Insomma, se vuole avere una speranza contro Trump deve uscire dalla sua bolla: la California non è l’America e sovrapporle è un errore di prospettiva, tipico delle élite dem, che ha spesso partorito sconfitte.
Rampini, come vedete, analizza e suggerisce, non dice cose strane né razziste, ma finisce all’indice lo stesso perché non partecipa alla santificazione della nuova madrina del politicamente corretto: fino a due giorni fa era una vicepresidente oscillante fra l’irrilevante e il dannoso, e di colpo è diventata un incrocio tra Margaret Thatcher e Angela Merkel.
Rampini dice, a proposito delle “magnifiche sorti progressive” di cui i dem vanno salmodiando: guardate piuttosto alle fabbriche del Midwest, alla pancia dell’America profonda, smettetela di bombardare il vostro Paese, di attaccarlo figurandolo per quello che non è, e ricordatevi che è una terra delle opportunità. Se non si può dire neanche questo, siamo al sovietismo intellettuale, spinto dalle squadracce social. Noi non ci stiamo: salvate il soldato Rampini!