Si porta molto, negli interstizi frivoli del mainstream, nei (fu) giornaloni, nel conformismo social camuffato da analisi, insomma nel chiacchiericcio di quelli che la sanno lunga, la seguente narrativa: Salvini schiacciato su Trump e Le Pen, a fronte di una premier giocoforza più “istituzionale”, intenta a triangolare con Ursula, con Sleepy Joe e altri (im)presentabili vari.
Al netto della strumentalità smaccata della seconda affermazione (che Meloni per ruolo abbia certi obblighi relazionali è ovvio, che li persegua per conto proprio e non in base ai desiderata di lorsignori pure), concentriamoci sulla prima. Essere “schiacciati” dalle parti di un ex presidente degli Stati Uniti, ad oggi ampiamente favorito per la corsa di novembre alla Casa Bianca, e di una leader che ha già dimostrato di avere la maggioranza relativa dei consensi in Francia (seconda nazione d’Europa economicamente, prima militarmente), non è mica male, diciamo, come schiacciamento.
In realtà, non è affatto uno schiacciamento: è anzitutto una posizione intelligente tatticamente, vista l’alta possibilità che Donald&Marine diano a breve le carte in due Paesi chiave dell’Occidente e del globo. Ma, ben più profondamente, Salvini ha compreso una cosa, non esattamente residuale: la nuova faglia di rottura della politica contemporanea. Che vede contrapporsi due radicalismi, anche se non nel senso novecentesco che la vulgata mondana dà all’espressione. Senza eccessivo zelo terminologico, potremmo definirli un radicalismo identitario (dove l’identità è quella larga e plurale dell’Occidente, buttate a mare le caricature sulle camicie brune in arrivo) versus un radicalismo delle élite. Il secondo lo ha superbamente descritto da queste parti Corrado Ocone, lo riassumo malamente: si tratta di un forma sofisticata di antipolitica, che è “radicale” nella sua ossessione per il mantenimento dello status quo purchessia, dell’agenda globalista, Woke, gretina, burocraticista e dirigista. Al punto da andare a braccetto con antisemiti dichiarati che inneggiano ad Hamas (è il caso in Francia di un bel pezzo di Fronte popolare, in America dell’estremismo ultradem dei campus). La preoccupazione principale di questo fronte è che l’Occidente non abbia un colpo di reni, un soprassalto di coscienza, che non ritorni a difendere la propria cultura, la propria tradizione, la propria diversità, anzi, la propria eccezionalità, che è l’incubo di queste scalcagnate élite d’inizio millennio, le quali sono prosperate sull’irragionevole senso di colpa occidentale. Per cui la nostra civiltà va edulcorata nel frullato multiculturale (come se Voltaire e il burqa pari fossero, per stare Oltralpe), punita a colpi di ecotasse, scarnificata in procedure funzionariali e in tic politicamente corretti.
Dall’altra parte della barricata, c’è il radicalismo di chi è ancora radicato in questa storia, in questa grande avventura umana e culturale che è l’Occidente. Un’avventura plurale per definizione, c’è chi reagisce alla folle pretesa della (auto)Cancellazione anzitutto in nome del libertarismo individualista (ed è il caso molto americano di Donald Trump), chi lo fa anzitutto in nome del nazionalismo razionalista (ed è il caso molto francese di Marine Le Pen), ma il tratto comune è la rinuncia al declino, la ribellione alla profezia autoavverante sul tramonto dell’Occidente, il rifiuto radicale, appunto, di suicidarsi. È il grande aut-aut che attraversa le società occidentali: ritrovare l’orgoglio di sé, o sparire come tali. È il grande fronte della reazione identitaria, dove i due termini sono da prendere nella loro pura letteralità tecnica, scremati da qualunque intossicazione retrograda. Anzi, retrogradi sono gli altri. Retrogradi sono coloro che riaprono, nel cuore dell’Europa, all’idea terrificante che la donna sia ontologicamente inferiore, segnata da un minus originario rispetto all’uomo, e lo fanno ostentando il sorrisetto inclusivo e islamofilo. Retrogradi sono coloro che fanno risuonare nei templi del sapere occidentale, ad Harvard, a Yale, in ricevimenti dell’élite americana così distopici che nemmeno Tom Wolfe li aveva prefigurati, le parole d’ordine dei tagliagole nazislamici, vendendotela come un’applicazione rigorosa del Free Speech, quando ne è la negazione più feroce. Retrogradi sono i progressisti, nell’anno 2024, perché ormai irrimediabilmente vocati al suicido culturale, malati cronici di quella che Sir Roger Scruton chiamava “oicofobia”, la vergogna e l’odio di sé.
Per cui, ogni volta che qualche grande firma applica la lettera scarlatta di “radicalità” alle posizioni di Salvini, sta inconsapevolmente riconoscendo che il segretario leghista coglie la posta in gioco oggi, l’invariante decisiva della politica al di là delle specifiche nazionali. Dialogare col trumpismo e col lepenismo significa essere al centro dei sommovimenti contemporanei, con un posizionamento chiaro. Dalla parte dell’Occidente. Dici poco.
Il senso dell’agenda-Salvini: stare con Trump e Le Pen per ribellarsi al suicidio dell’Occidente
Giovanni Sallusti · 3 Luglio 2024
Si porta molto, negli interstizi frivoli del mainstream, nei (fu) giornaloni, nel conformismo social camuffato da analisi, insomma nel chiacchiericcio di quelli che la sanno lunga, la seguente narrativa: Salvini schiacciato su Trump e Le Pen, a fronte di una premier giocoforza più “istituzionale”, intenta a triangolare con Ursula, con Sleepy Joe e altri (im)presentabili vari.
Al netto della strumentalità smaccata della seconda affermazione (che Meloni per ruolo abbia certi obblighi relazionali è ovvio, che li persegua per conto proprio e non in base ai desiderata di lorsignori pure), concentriamoci sulla prima. Essere “schiacciati” dalle parti di un ex presidente degli Stati Uniti, ad oggi ampiamente favorito per la corsa di novembre alla Casa Bianca, e di una leader che ha già dimostrato di avere la maggioranza relativa dei consensi in Francia (seconda nazione d’Europa economicamente, prima militarmente), non è mica male, diciamo, come schiacciamento.
In realtà, non è affatto uno schiacciamento: è anzitutto una posizione intelligente tatticamente, vista l’alta possibilità che Donald&Marine diano a breve le carte in due Paesi chiave dell’Occidente e del globo. Ma, ben più profondamente, Salvini ha compreso una cosa, non esattamente residuale: la nuova faglia di rottura della politica contemporanea. Che vede contrapporsi due radicalismi, anche se non nel senso novecentesco che la vulgata mondana dà all’espressione. Senza eccessivo zelo terminologico, potremmo definirli un radicalismo identitario (dove l’identità è quella larga e plurale dell’Occidente, buttate a mare le caricature sulle camicie brune in arrivo) versus un radicalismo delle élite. Il secondo lo ha superbamente descritto da queste parti Corrado Ocone, lo riassumo malamente: si tratta di un forma sofisticata di antipolitica, che è “radicale” nella sua ossessione per il mantenimento dello status quo purchessia, dell’agenda globalista, Woke, gretina, burocraticista e dirigista. Al punto da andare a braccetto con antisemiti dichiarati che inneggiano ad Hamas (è il caso in Francia di un bel pezzo di Fronte popolare, in America dell’estremismo ultradem dei campus). La preoccupazione principale di questo fronte è che l’Occidente non abbia un colpo di reni, un soprassalto di coscienza, che non ritorni a difendere la propria cultura, la propria tradizione, la propria diversità, anzi, la propria eccezionalità, che è l’incubo di queste scalcagnate élite d’inizio millennio, le quali sono prosperate sull’irragionevole senso di colpa occidentale. Per cui la nostra civiltà va edulcorata nel frullato multiculturale (come se Voltaire e il burqa pari fossero, per stare Oltralpe), punita a colpi di ecotasse, scarnificata in procedure funzionariali e in tic politicamente corretti.
Dall’altra parte della barricata, c’è il radicalismo di chi è ancora radicato in questa storia, in questa grande avventura umana e culturale che è l’Occidente. Un’avventura plurale per definizione, c’è chi reagisce alla folle pretesa della (auto)Cancellazione anzitutto in nome del libertarismo individualista (ed è il caso molto americano di Donald Trump), chi lo fa anzitutto in nome del nazionalismo razionalista (ed è il caso molto francese di Marine Le Pen), ma il tratto comune è la rinuncia al declino, la ribellione alla profezia autoavverante sul tramonto dell’Occidente, il rifiuto radicale, appunto, di suicidarsi. È il grande aut-aut che attraversa le società occidentali: ritrovare l’orgoglio di sé, o sparire come tali. È il grande fronte della reazione identitaria, dove i due termini sono da prendere nella loro pura letteralità tecnica, scremati da qualunque intossicazione retrograda. Anzi, retrogradi sono gli altri. Retrogradi sono coloro che riaprono, nel cuore dell’Europa, all’idea terrificante che la donna sia ontologicamente inferiore, segnata da un minus originario rispetto all’uomo, e lo fanno ostentando il sorrisetto inclusivo e islamofilo. Retrogradi sono coloro che fanno risuonare nei templi del sapere occidentale, ad Harvard, a Yale, in ricevimenti dell’élite americana così distopici che nemmeno Tom Wolfe li aveva prefigurati, le parole d’ordine dei tagliagole nazislamici, vendendotela come un’applicazione rigorosa del Free Speech, quando ne è la negazione più feroce. Retrogradi sono i progressisti, nell’anno 2024, perché ormai irrimediabilmente vocati al suicido culturale, malati cronici di quella che Sir Roger Scruton chiamava “oicofobia”, la vergogna e l’odio di sé.
Per cui, ogni volta che qualche grande firma applica la lettera scarlatta di “radicalità” alle posizioni di Salvini, sta inconsapevolmente riconoscendo che il segretario leghista coglie la posta in gioco oggi, l’invariante decisiva della politica al di là delle specifiche nazionali. Dialogare col trumpismo e col lepenismo significa essere al centro dei sommovimenti contemporanei, con un posizionamento chiaro. Dalla parte dell’Occidente. Dici poco.
Autore
Giovanni Sallusti
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