Quella pallottola spuntata della magistratocrazia
Giovanni Sallusti · 5 Agosto 2025
Cari ascoltatori, la magistratocrazia ha sparato un altro colpo, questa volta particolarmente farraginoso, in pratica a salve. È successo che a sei mesi dall’apertura del procedimento sul caso Almasri (il massimo consentito dalla legge sarebbe di tre), il Tribunale dei ministri ha archiviato la posizione della premier Giorgia Meloni, mentre andranno incontro all’autorizzazione a procedere il ministro degli interni Matteo Piantedosi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano.
Cercare di mandare a giudizio tre ministri ma la premier no è un tentativo irrituale, velenoso – per un caso che lo scorso gennaio per un paio di settimane aveva fatto sproloquiare i giornaloni di crisi di governo – e segue una (debolissima) logica politica più che giudiziaria: a meno che qualche toga pensi che davvero Giorgia Meloni non abbia toccato palla sul dossier Almasri, non abbia chiesto informazioni all’intelligence, al sottosegretario Mantovano, ai ministri, e non ne abbia coordinato le azioni in una questione così rilevante da un punto di vista sia interno sia internazionale.
Chiunque conosca Giorgia Meloni sa che questo è impossibile, prima di tutto per la persona, e poi per il suo ruolo: la mossa dei magistrati è una furbata perché perfino loro si sono accorti che il casus belli non stava in piedi e insistere sulla premier era anche più inverosimile. Come disse un vecchio esponente della sinistra, Marco Minniti, la vicenda è in pieno territorio della ragione di Stato e la magistratura non c’entra nulla. Però si può provare a mandare al massacro i ministri – via autorizzazione a procedere più gazzarra del fronte progressista – un modo per tenere il governo a bagnomaria con la clava giudiziaria: lo stesso meccanismo del grottesco provvedimento “per saltum” della Procura di Palermo contro l’assoluzione a Matteo Salvini sul caso Open Arms, con un ricorso direttamente in Cassazione.
Si tenta così di inserire una serie di mine giudiziarie sull’attività di governo, anche perché sono le uniche rimaste a lorsignori: da un lato c’è un centrosinistra ridicolo, la cui leader Elly Schlein è commissariata da Giuseppe Conte (esempio eclatante è il caso di Matteo Ricci nelle Marche) e la cui credibilità come alternativa è pari a zero; dall’altro i fondamentali economici del Paese sono buoni, in un quadro globale accidentato, di crisi belliche, di tensione nella politica commerciale con la questione dei dazi, di aggravamento delle eurofollie. È difficile inchiodare il governo, soprattutto in confronto alle condizioni delle ormai ex locomotive d’Europa, Francia e Germania.
Di crisi a palazzo Chigi non c’è alcuna avvisaglia, ci sono solo differenze normali, la dialettica fisiologica di una coalizione. Quindi a lorsignori non rimane che il remake di un vecchio film, l’assalto giudiziario alla diligenza del centro-destra. Già l’originale non fece bene al Paese, poche volte riuscì a disarcionare temporaneamente l’avversario, e al prezzo di sdoganare l’irruzione dell’ordine giudiziario nel potere politico, una illiberale anomalia costituzionale.
Questa volta non ci riusciranno, i casus belli sono troppo inverosimili, dal ricorso ultra-anomalo contro Salvini alla furbata da azzeccagarbugli di archiviare Meloni ma i suoi ministri no: le ultime cartucce della magistratocrazia, remake peggiore di un pessimo film. Aspettiamo i titoli di coda.