Trump dà le carte e l’asse franco-tedesco crolla
Giovanni Sallusti · 29 Luglio 2025
Cari ascoltatori, è chiaro che in queste settimane (ma anche in questi anni) si sta giocando al tavolo della storia, piaccia o no ai soloni che dal divano danno lezioni di democrazia alla più grande democrazia del globo e alle anime belle che si rimpallano le loro wokate fuori tempo (per non dire del fronte progressista/campo largo).
Il mazziere di questa partita è Donald Trump, non solo per il risultato materiale dell’accordo-capolavoro sui dazi con l’Unione europea, ma per le ricadute che sta generando: Ursula von der Leyen ha dovuto condividere la diagnosi di Trump sulle relazioni Usa-Ue, cioè la non tollerabilità di uno squilibrio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, tanto che lei stessa si è espressa come un copia-incolla del suo interlocutore: noi siamo in surplus, gli Stati Uniti sono in deficit, bisogna riequilibrare.
Ma ancora più rilevanti sono le conseguenze deflagranti viste nelle ore successive, perché l’accordo sui dazi ha rotto un automatismo: il rapporto diretto tra l’eurocrazia di Bruxelles e i due governi delle due ex locomotive del continente, Francia e Germania. Siamo stati abituati per decenni a vedere il governo Ue trattare se stesso come una dependance dell’asse Parigi-Berlino, una connessione politica iper-deleteria: ora, invece, questa nuova Ursula, in versione avatar di Trump, ha generato un terremoto a Parigi e a Berlino. Macron ha avuto una crisi isterica: ha detto che è inaccettabile che l’Europa sia suddita degli Stati Uniti (certo, lui si crede l’erede di Napoleone e la vorrebbe suddita dei francesi), glissando sul fatto che la Francia – per esempio sul piano militare che in questa contingenza non è secondario – senza gli Stati Uniti non avrebbe alcuna credibilità. Sul fronte tedesco, Friedrich Merz è inviperito e lamenta che l’accordo avrà una ricaduta negativa sull’economia tedesca. Può essere, ma può essere anche che questo sia uno degli obiettivi di Trump, che ha sempre contestato alla Ue di aver coperto con la moneta unica la concorrenza sleale tedesca verso i mercati americani.
Come vedete, siamo a un tornante storico. E non solo sul fronte europeo: il presidente Usa ha affondato su Vladimir Putin: “Non ho più nessuna intenzione di parlarci, è inutile, gli darò un’ultima finestra di 10-12 giorni per chiudere la pace”. Trump sembra non capacitarsi del fatto che Mosca, contro ogni logica, rifiuti l’ovvietà di intavolare un deal nel suo stesso interesse, cioè per affrancarsi dal rischio di diventare vassallo dell’impero cinese. Il sottotesto (ma neanche tanto) di Trump è che a questo punto, sostenuto dai repubblicani al Congresso, verrà sbloccato un consistente nuovo pacchetto di misure: dopo i sistemi di difesa Patriot per Kiev, nuovi veicoli blindati e soprattutto il progetto di devastanti sanzioni secondarie, cioè contro chi commercia, soprattutto in materie prime, con la Russia. In pratica, sul tavolo ci possono finire o una trattativa di pace, o una quantità armi e di sanzioni mai viste.
Infine, Trump ha fatto dei distinguo anche sull’alleato storico nel calderone mediorientale, Israele, che ha sempre sostenuto nella reazione al pogrom del 7 ottobre: pur rimando risoluto sulla lotta contro i tagliagole di Hamas e i suoi mandanti di Teheran, ha detto che “non è vero che a Gaza non c’è fame, a Gaza c’è anche un problema di fame: noi ci attrezzeremo, porteremo gli aiuti in quanto Stati Uniti, costruiremo punti di raccolta”.
Per tutto questo, piaccia o no, fegati scoppiati o no, in questo momento anomalo e saliente della storia occidentale e mondiale, il mazziere è Donald Trump.