L’agenda-Trump vince a Gaza: è già l’Agenda-mondo
Giovanni Sallusti · 15 Gennaio 2025
Cari ascoltatori, è in pieno corso il riallineamento del mondo attorno all’agenda del puzzone, dell’orco, dell’impresentabile, del dilettante (qualcuno detto pure questo) Donald Trump. Non si è ancora insediato (la cerimonia avverrà il 20 gennaio) e tutti gli scenari di crisi, i più importanti player globali, che siano Stati o grandi aziende, stanno ristrutturando la loro agenda attorno alle dichiarazioni di Trump.
Oggi la notizia è che Hamas, dopo aver rifiutato per mesi ogni ipotesi di mediazione, perfino quando è stata avanzata dal Qatar, che prevenuto con Hamas non è, ora ha accettato l’ultima bozza di accordo presentata dagli Stati Uniti, come ha ammesso lo stesso Joe Biden coordinata e in gran parte gestita dallo staff di Trump: tregua di 42 giorni, inizio di una parziale ricostruzione di Gaza e rilascio di 33 ostaggi, che purtroppo sono probabilmente i soli rimasti vivi.
La svolta è maturata pochi giorni dopo le parole di Trump, che con lo stile da spaccone-cowboy che scandalizza le cancellerie perbeniste europee, aveva detto: Hamas farà bene a restituire tutti gli ostaggi prima del 20 gennaio, altrimenti scatenerò l’inferno in Medio Oriente. Hamas, al contrario delle suddette cancellerie, deve aver inteso che non scherzava: in politica, tanto più in geopolitica, la tempistica non è mai casuale. Né lo è per quel che è avvenuto all’interno della società americana, che si traduce comunque in un dato globale.
Per esempio la spettacolare inversione a U di Mark Zuckerberg, ex alfiere della Silicon valley politicamente corretta: le piattaforme Meta, da Facebook a Instagram, cioè gran parte della vita social extra-Musk, sbaraccheranno le politiche censorie di inclusione, di diversità, l’algoritmo del fact-checking, insomma tutte le paranoie ideologiche woke. Lo stesso avverrà per le policy aziendali interne. Negli uffici di Meta sono già spariti anche i bagni gender. E Zuckerberg è una potenza, per questo la sua decisione è un termometro di quel che sta accadendo.
Anche da questa parte dell’oceano i segnali sono visibili: sul fronte ucraino Vladimir Putin ha fatto ventilare, anche durante una conferenza stampa, di essere ben disposto a un compromesso. È la prima volta dall’inizio della sua “operazione speciale”, che doveva essere la presa di Kiev in pochi giorni ed è diventata una carneficina. Trump tiene alla chiusura della guerra per non buttare tempo e risorse da dedicare al vero scenario, cioè la competizione con la Cina.
Il presidente eletto ha fatto anche un’altra sparata, quella sulla Groenlandia: i giornali hanno subito abboccato e le anime belle si sono precipitate a dare lezioni di diplomazia e di politica americana a uno che al suo primo mandato ha registrato uno dei migliori bilanci fra tutte le recenti presidenze Usa. Il fatto è che i toni irrituali di Trump sono intenzionali: l’analisi più lucida è di Federico Rampini, secondo il quale Trump ha voluto dire che quel quadrante è di interesse vitale per l’America e per l’Occidente, e che non lascerà che l’Artico sia preda delle navi russe e cinesi. Al ministro degli Esteri della Danimarca la cosa deve essere stata subito chiara: ha fatto sapere che il suo Paese è disponibile ad aumentare la presenza militare americana in Groenlandia, a collaborare su tutti i dossier con gli Stati Uniti. Questo era esattamente l’obiettivo di Trump: chiarire in quale quadrante politico si trovano Danimarca, Groenlandia, Artico, Europa.
Sarà anche puzzone e irrituale, ma The Donald già prima di insediarsi alla Casa Bianca ha dettato un’agenda americana, la sua agenda, che è rapidamente diventata un’agenda-mondo.