Sì, va ripensato lo sciopero che nega gli altri diritti
Giovanni Sallusti · 12 Dicembre 2024
Cari ascoltatori, è ora di rivedere lo strumento dello sciopero, la normativa, le modalità, i limiti, il contesto in cui si esprime il diritto di sciopero. Sia chiaro: non si parla del diritto di sciopero in sé come diritto costituzionale inalienabile, non facciamo caricature come è d’abitudine per il maninstrem, che la vedrà come una mattana anarcoliberista o di ultradestra.
Stiamo invece nella realtà del 2024. Oggi il giudice monocratico del Tar del Lazio ha annullato la precettazione che il ministro Matteo Salvini aveva fatto sullo sciopero di domani nel settore dei trasporti: quindi lo sciopero sarà selvaggio, di 24 ore, e sarà il caos, il Paese sarà paralizzato in un giorno lavorativo.
Salvini ha dichiarato di “voler ridiscutere le norme sugli scioperi tutti insieme, anche con i sindacati, perché dovrebbero essere i primi a rendersi conto che se c’è uno sciopero al giorno quelle sono giornate in meno per i lavoratori, e quindi c’è qualcosa che non va: il diritto allo sciopero è sacrosanto, ma a volte nega il diritto di vivere, di curarsi, di lavorare. Non penso sia utile andare avanti di scontro in scontro, di precettazione in precettazione”: non sono frasi eversive, sono considerazioni di buonsenso.
Ma perché partiamo da qui? Perché la posizione di gran parte del mondo sindacale, che è quella avallata oggi dal giudice del Tar del Lazio, è totalmente anacronistica, frutto di una non comprensione della realtà. Innanzi tutto c’è ormai un grande equivoco sul diritto di sciopero, che è diventato uno slogan per fare politica (soprattutto da quando al governo c’è il centrodestra); o, nella migliore delle ipotesi, è inteso come qualcosa di metafisico, che ingloba tutto, un dogma. Invece no: è certamente un diritto costituzionale, ma il suo esercizio va contemperato, messo in relazione dialettica con altri diritti non trascurabili, non secondari.
Pensate al diritto alla mobilità: un certo pensiero di sinistra ci tritura le scatole ogni giorno con il diritto alla mobilità “dolce”, ma quando i sindacati lo negano alla radice, invece non dice una sillaba. E poi il diritto al lavoro, che domani verrà minato per molti italiani, spesso lavoratori di ceti medio-bassi, che necessitano di spostarsi col servizio pubblico; o professionisti che si muovono con l’alta velocità e hanno un’agenda di appuntamenti che è fatturato, cioè il loro sostentamento; e il diritto allo studio degli studenti pendolari.
E qui veniamo alla seconda grande incomprensione, su che cos’è il lavoro oggi, su chi sono i veri deboli oggi, quelli senza tutele. Il grande oceano dei non garantiti è quello delle micropartite Iva, dei piccoli artigiani, dei commercianti di quartiere, dei piccoli imprenditori. Con il linguaggio di Gianfranco Miglio, che rappresenta più di qualcosa per la storia di questa radio, diciamo che l’unica lotta di classe sopravvissuta è la lotta di classe tra produttori e parassiti. Badate, Miglio usava quest’ultima parola scremata da qualunque valutazione moralistica o spregiativa, la intendeva in senso tecnico: la lotta tra coloro che sono condannati a produrre da sé il proprio sostentamento e coloro che vivono di risorse altrui.
Su questa grande contrapposizione di oggi il sindacato non dice nulla, anzi, spesso difende privilegi anacronistici dei garantiti. E la decisione del giudice del Tar fa sì che domani si bloccherà il Paese in nome di idee anacronisctiche, di un concetto di sciopero anacronistico, di un concetto di lavoro anacronistico, come se vivessimo nel Novecento. Allora ha ragione Salvini, hanno ragione tutti coloro che dicono non neghiamo il diritto, ma ripensiamo alle modalità in cui nel 2024 si deve esplicare questo diritto, perché anche gli altri non sono meno importanti.