Alla fine, l’Elegia Americana ha cantato più forte del richiamo di Hollywood. O forse in realtà era così fin dall’inizio: le magnifiche sorti e progressive assicurate dalla “joy” kamaliana (mai si era udita parola d’ordine più impolitica), il miracolo di una vicepresidente scialba che diventa una candidata alla presidenza luminosa, i finti sondaggi dell’ultim’ora a svolgere il ruolo di speech di traino, evocavano un’avanzata dem che non c’era. In realtà, c’era la marea opposta: Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti. E ha costruito la vittoria proprio in quelli Stati della Rust Belt de-industrializzata dal globalismo masochista e involontariamente (?) filocinese dei democratici che tanto ruolo ha avuto nella genesi del trumpismo.
E’ la storia che sta (ri)prendendo una piega netta. Lo capivi già prima dell’alba, misurando un termometro più scientifico ancora dei numeri: la faccia del Giornalista Collettivo nei vari speciali e maratone sull’Election Night. Affranto, disperato per l’impossibilità di lasciarsi andare pienamente alla propria disperazione, ostinatamente avviluppato in interrogativi autoreferenziali, del genere: com’è possibile che il popolo americano voglia in massa il Puzzone, l’Orco, il blasfemo che non intende sbaraccare l’industria fossile e dichiara che bisognerebbe bombardare i siti nucleari di quei galantuomini degli ayatollah? Essì perché, incredibile dictu, The Donald si sta avviando anche a essere l’unico repubblicano che prevale nel voto nazionale dal 2004, dai tempi di George W. Bush (tempi di guerra in cui notoriamente il popolo americano si stringe attorno al comandante in capo).
Conta poco nel meccanismo elettorale (felicemente) federalista degli States, conta tantissimo al di qua dell’Atlantico, è la picconata definitiva al racconto del nostro mainstream piccino e ombelicale. Perché si può ricamare a oltranza sull’appello di Julia Roberts che sposterebbe in massa il voto femminile (non è successo), ci si può rintanare nella convinzione che il tocco magico dell’oratoria obamiana sfoci in consenso oceanico (non è più così da tempo, precisamente da quando gli americani hanno verificato la tenuta della retorica alla prova del governo), si possono ben spedire i propri corrispondenti di punta a intervistare scrittori residenti nell’Upper East Side e spacciare l’amabile conversazione come il polso dell’America (l’ha fatto Repubblica con Jonathan Franzen, l’ha fatto La Stampa con Colum McCann).
A un certo punto però l’America, quella vera, arriva. E l’America vera ha detto alcune cose inequivocabili. Basta inflazione galoppante, basta spesa assistenziale incontrollata per qualunque minoranza auto-percepita come discriminata dal Vangelo Woke, torniamo ai fondamentali, tasse giù, deregulation, spiriti animali del capitalismo americano liberi di circolare (piaccia o no, la miglior ricetta che l’umanità abbia escogitato per produrre benessere). Basta dispersione dei fronti, archiviamo il macello ucraino con una negoziazione garantita dalla forza americana (e non c’è miglior negoziatore sulla piazza contemporanea di un Donald Trump con dietro l’arsenale del Pentagono), concentriamoci sulla priorità, la sfida egemonica cinese. Ri-localizziamo, re-industrializziamo, rispondiamo alla concorrenza sleale di chi pratica lo schiavismo con dazi intelligenti (pratica che con qualche timidezza ha confermato anche l’amministrazione Biden, convincendo però paradossalmente gli elettori che allora era meglio l’originale).
Basta attacco al sogno americano, questo è il senso profondo del poco compreso “Make America Great Again”: la terra delle opportunità non può mai, in nessun caso, diventare una landa per un socialismo mascherato, o peggio un ideologismo esplicito che colpevolizza costantemente l’americano medio. L’americano medio ha votato, ed è ancora e sempre la maggior garanzia per la libertà di tutti. Go Donald Go, da oggi l’Elegia diventa lo spartito ufficiale della Casa Bianca.
Trump presidente: vince l’America vera, perde la truffa woke. Addio alla triste “joy” di Kamala
Giovanni Sallusti · 7 Novembre 2024
Alla fine, l’Elegia Americana ha cantato più forte del richiamo di Hollywood. O forse in realtà era così fin dall’inizio: le magnifiche sorti e progressive assicurate dalla “joy” kamaliana (mai si era udita parola d’ordine più impolitica), il miracolo di una vicepresidente scialba che diventa una candidata alla presidenza luminosa, i finti sondaggi dell’ultim’ora a svolgere il ruolo di speech di traino, evocavano un’avanzata dem che non c’era. In realtà, c’era la marea opposta: Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti. E ha costruito la vittoria proprio in quelli Stati della Rust Belt de-industrializzata dal globalismo masochista e involontariamente (?) filocinese dei democratici che tanto ruolo ha avuto nella genesi del trumpismo.
E’ la storia che sta (ri)prendendo una piega netta. Lo capivi già prima dell’alba, misurando un termometro più scientifico ancora dei numeri: la faccia del Giornalista Collettivo nei vari speciali e maratone sull’Election Night. Affranto, disperato per l’impossibilità di lasciarsi andare pienamente alla propria disperazione, ostinatamente avviluppato in interrogativi autoreferenziali, del genere: com’è possibile che il popolo americano voglia in massa il Puzzone, l’Orco, il blasfemo che non intende sbaraccare l’industria fossile e dichiara che bisognerebbe bombardare i siti nucleari di quei galantuomini degli ayatollah? Essì perché, incredibile dictu, The Donald si sta avviando anche a essere l’unico repubblicano che prevale nel voto nazionale dal 2004, dai tempi di George W. Bush (tempi di guerra in cui notoriamente il popolo americano si stringe attorno al comandante in capo).
Conta poco nel meccanismo elettorale (felicemente) federalista degli States, conta tantissimo al di qua dell’Atlantico, è la picconata definitiva al racconto del nostro mainstream piccino e ombelicale. Perché si può ricamare a oltranza sull’appello di Julia Roberts che sposterebbe in massa il voto femminile (non è successo), ci si può rintanare nella convinzione che il tocco magico dell’oratoria obamiana sfoci in consenso oceanico (non è più così da tempo, precisamente da quando gli americani hanno verificato la tenuta della retorica alla prova del governo), si possono ben spedire i propri corrispondenti di punta a intervistare scrittori residenti nell’Upper East Side e spacciare l’amabile conversazione come il polso dell’America (l’ha fatto Repubblica con Jonathan Franzen, l’ha fatto La Stampa con Colum McCann).
A un certo punto però l’America, quella vera, arriva. E l’America vera ha detto alcune cose inequivocabili. Basta inflazione galoppante, basta spesa assistenziale incontrollata per qualunque minoranza auto-percepita come discriminata dal Vangelo Woke, torniamo ai fondamentali, tasse giù, deregulation, spiriti animali del capitalismo americano liberi di circolare (piaccia o no, la miglior ricetta che l’umanità abbia escogitato per produrre benessere). Basta dispersione dei fronti, archiviamo il macello ucraino con una negoziazione garantita dalla forza americana (e non c’è miglior negoziatore sulla piazza contemporanea di un Donald Trump con dietro l’arsenale del Pentagono), concentriamoci sulla priorità, la sfida egemonica cinese. Ri-localizziamo, re-industrializziamo, rispondiamo alla concorrenza sleale di chi pratica lo schiavismo con dazi intelligenti (pratica che con qualche timidezza ha confermato anche l’amministrazione Biden, convincendo però paradossalmente gli elettori che allora era meglio l’originale).
Basta attacco al sogno americano, questo è il senso profondo del poco compreso “Make America Great Again”: la terra delle opportunità non può mai, in nessun caso, diventare una landa per un socialismo mascherato, o peggio un ideologismo esplicito che colpevolizza costantemente l’americano medio. L’americano medio ha votato, ed è ancora e sempre la maggior garanzia per la libertà di tutti. Go Donald Go, da oggi l’Elegia diventa lo spartito ufficiale della Casa Bianca.
Autore
Giovanni Sallusti
Opinione dei lettori