Santa Kamala protettrice delle bufale dem
Giovanni Sallusti · 23 Agosto 2024
Cari ascoltatori, chiusa la Convention democratica di Chicago con il discorso di accettazione della nomination della candidata paracadutata dall’élite democratica sulla testa di Joe Biden, la parola d’ordine da qui a novembre sarà “dacci oggi la nostra Santa Kamala”. L’attuale vicepresidente ha pronunciato un discorso ampiamente telefonato nel quale ha insistito su due punti.
Primo: ha rivendicato un’improbabile infanzia difficile come esempio di ascesa al sogno americano: però suo padre era un riconosciuto economista (che presto ha abbandonato la famiglia, è vero), e sua madre era una nota ricercatrice. Insomma Kamala non viene proprio dal basso, ma ha premuto ugualmente di questo tasto retorico. Secondo: ha insistito – anche un po’ troppo, come se volesse convincersene lei per prima – sulla promessa di tutelare gli interessi della classe media americana. Peccato che la sua agenda, tutta tasse, burocrazia e regolamentazione woke, sia l’esatto contrario.
Ma tutto questo poco importa, perché la realtà non conta nulla nella narrazione che santifica Kamala, vale solo la rappresentazione, il santino. Infatti ieri sui giornaloni è comparso un unisono inno alla gioia, proprio in senso letterale: la gioia è l’espressione che i quotidiani americani hanno collegato a Kamala, sull’onda dello slogan lanciato da Oprah Winfrey, che conta molto di più di qualunque politico dem. Il messaggio è arrivato subito alle ultime cattedrali del politicamente corretto, cioè i giornaloni nostrani, che ieri hanno imbastito la contrapposizione tra la gioia di Kamala e le “passioni tristi” incarnate da Donald Trump, cioè la paura e la rabbia, l’ha fatto per esempio La Stampa; mentre Repubblica ha optato per un ottimismo kamaliano contro l’odio affibbiato a Trump.
Ovviamente nessuno si fa qualche domanda su che cosa Kamala rappresenti, su quali siano le politiche portate avanti dai democratici obamiani cui è legata; né qualcuno si interroga sul fossato che costoro hanno allargato tra l’oligarchia politicamente corretta incistata sulle due coste e l’America profonda, quella cantata nel romanzo “Elegia Americana” dal candidato vicepresidente di Trump J. D. Vance. E nessuno si interroga sui clamorosi abbagli in politica estera presi da costoro, l’illusione masochista di una pacificazione con un certo mondo islamico, in primis il regime iraniano che è il principale incubatore di terrorismo jihadista; né sulla follia clintoniana di concedere alla Cina la leva della concorrenza sleale nel commercio globale, contro la quale solo Trump ha preso contromisure.
Tutto questo sparisce perché c’è da celebrare non la Kamala Harris che fino a qualche settimana fa gli stessi giornali liberal definivano scialba, che ha fallito nell’unico dossier di cui era incaricata, la gestione dell’immigrazione dal confine sud: bisogna celebrare una Kamala santa, cioè un personaggio immaginario appeso a stati d’animo artefatti e retorica. E da qui a novembre, vi avviso, di retorica faremo ampia indigestione.