Kamala non esiste: è un burattino di Barack
Giovanni Sallusti · 21 Agosto 2024
Cari ascoltatori, la Convention democratica in scena in questi giorni sta mettendo in chiaro quale sia la vera contesa in America, e quindi la contesa che riguarda il mondo intero.
La contesa è semplice: Donald Trump contro il clan Obama, soprattutto con Michelle, il cui ruolo sta diventando sempre più importante. A Chicago è emerso chiaramente che Kamala Harris è una propaggine, una marionetta del clan Obama che tiene saldamente le redini del partito democratico, anche più del clan Clinton che sembra un po’ in ribasso. I discorsi di Barack e Michelle, uno dietro l’altro, hanno rappresentato una dimostrazione di forza, come se fossero i padroni del partito. E non solo non lo hanno nascosto, ma l’hanno detto chiaramente, che Kamala è una loro creatura.
Barack Obama, non la candidata alla presidenza, ha lanciato lo slogan della campagna elettorale “Yes, she can”, una copia carbone del suo storico “Yes, we can” adattato per Kamala, visto che lei è una donna. In lei, quindi, non c’è niente di originale, è una costruzione, un tarocco: fino a un mese fa persino i media liberal la dipingevano come una vicepresidente insignificante: la sua unica delega concreta, la gestione dell’immigrazione, è stata un fallimento totale, il confine con il Messico è un colabrodo. È tutta una grande recita: l’hanno detto chiaro e forte, con lo slogan-copia coniato da Obama e con Michelle che ha chiamato Kamala, la candidata alla presidenza degli Stati Uniti, “la mia ragazza” e poi ha speculato su tutti i riflessi condizionati woke, giocando sul fatto che si candida a un “lavoro da neri”, sottolineando il colore della pelle, e sulla sua condizione di donna.
Quindi, la vera sfida è una sorta di riedizione del 2016, tra la visione del mondo degli Obama e quella di Donald Trump. Barack Obama ha significato cedimento strutturale all’islamismo, a nemici a vario titolo dell’Occidente; ha significato grande retorica sui diritti e sulle primavere arabe, che si sono poi rivelate sentine di estremismo e di fondamentalismo islamico; ha significato focolai bellici accesi a caso, nonostante il Nobel per la pace che gli è stato assegnato a priori. Obama ha fatto passi indietro, invece, quando doveva mostrare la forza dell’America. Un esempio: quando Bashar al-Assad, il dittatore siriano, ha varcato la linea rossa dell’uso di armi chimiche, Obama non ha fatto niente, al contrario di quanto aveva promesso. Quando Assad lo ha fatto con Donald Trump, Trump ha bombardato i siti delle armi chimiche. Trump non ha acceso guerre a caso, anzi le ha chiuse, ma ha mostrato la potenza dell’America quando è stato necessario.
Lo stesso è accaduto anche nel rapporto con Vladimir Putin. Gli anni di Obama hanno segnato l’ascesa dell’imperialismo putiniano fatto di annessioni forzate, che si è fermato solo nei quattro anni di Donald Trump. Barack Obama e l’obamismo hanno significato dittatura del politicamente corretto, ideologia delle quote, delle minoranze tutelate solo in quanto tali. Hanno snaturato la società americana indirizzandola verso un modello di welfare woke, un’alterazione del sogno americano e un indebolimento dell’identità occidentale, intaccando drasticamente la sicurezza, soprattutto degli europei, rispetto al terrorismo islamico.
Donald Trump è l’opposto. Trump conosce i nemici dell’America e dell’Occidente e va sempre alla trattativa, ma mettendo sul tavolo la potenza americana. Vuole farla finita con le paranoie woke e vuole riportare il merito, il valore dell’individuo, mettendo al centro la realtà contro l’ideologia. Ricordatelo: Kamala è solo un pupazzo. Lo scontro decisivo per l’Europa, per il mondo intero, è Obama contro Trump.