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Papa Francesco, durante i suoi anni di regno, ha trasformato profondamente la composizione del Collegio Cardinalizio, scegliendo di nominare numerosi cardinali provenienti da aree geografiche tradizionalmente poco rappresentate. Apparentemente, questa decisione sembrerebbe un tentativo di dare voce a realtà ecclesiali marginalizzate. Tuttavia, un'analisi più approfondita rivela che questa strategia ha lo scopo di facilitare l'elezione di un successore che prosegua la sua agenda progressista (o come si dice in gergo teologico: neomodernista). Tali sospetti aumentano se consideriamo le implicazioni di molte scelte fatte negli ultimissimi tempi del suo pontificato, come per esempio quella di prolungare la nomina a decano del cardinale Re.
Come ho spiegato più dettagliatamente su una delle più importanti testate cattoliche statunitensi, la creazione di cardinali provenienti dalle “periferie della Chiesa” ha generato due effetti principali. In primo luogo, molti di essi non hanno esperienza con le dinamiche di potere curiali e potrebbero essere facilmente influenzati dai gruppi più strutturati all’interno del conclave. In secondo luogo, la scarsa conoscenza reciproca tra i cardinali potrebbe impedire la formazione di alleanze solide, favorendo l’elezione di un candidato promosso da una minoranza meglio organizzata.
Fatta questa doverosa premessa, i porporati papabili possono essere oggi suddivisi in due principali gruppi, ognuno dei quali rappresenta una diversa visione per il futuro della Chiesa e corrisponderebbe a diverse esigenze politiche. Da un lato vi sono i tradizionalisti e i conservatori, tra cui spiccano i nomi del controverso Raymond Leo Burke, l’africano Robert Sarah e il carismatico Gerhard Ludwig Müller. L’elezione di uno di questi a Papa però risulta assai improbabile: i progressisti non vorranno mai appoggiarli, anche se non dobbiamo dimenticare che - come dimostrato da fonti molto attendibili - durante il conclave 2005 il conservatore Ratzinger vinse per un improvviso dirottamento di voti a suo favore da parte della fazione guidata dal progressista Carlo Maria Martini.
Certamente, un successo del partito tradizionalista segnerebbe una netta inversione di rotta rispetto al pontificato appena ...
Non solo l’Italia sta in Occidente, con gran scorno del Partito Cinese così incistato nel piccolo establishment domestico e così alacremente indaffarato a capovolgere la bussola geopolitica, che è sempre (anche) valoriale. C’è di più: l’Italia sta nella fetta di mondo che le è propria in prima fila, da “miglior alleato degli Stati Uniti”, copyright del 47esimo presidente d’Oltreocano.
È, con sintesi serale, il senso dell’incontro alla Casa Bianca tra la premier Giorgia Meloni e Donald Trump. Tutto meno che formale, visto che Meloni fa proprio il lessico trumpiano, il cuore stesso della sua simbologia: “Renderemo l’Occidente di nuovo grande”. Anzitutto, condividendo la pars destruens, la premessa che permette di non sbaraccare una civiltà, e che la presidente del Consiglio lega alla radice stessa del rapporto tra Italia e America: “Oggi, 17 aprile, è l'anniversario dell'accordo che permise a Cristoforo Colombo di fare il suo viaggio. Questo per ricordare che condividiamo un'altra lotta, contro l'ideologia woke che voglio cancellare dalla storia”. Cancellare l’ideologia della Cancellazione, ecco una formidabile parola d’ordine liberal-conservatice, anche rispetto a certi residui politicamente corretti che si aggirano nel Vecchio Continente (forse anche questo intende Trump, quando afferma entusiasticamente che “Giorgia Meloni ha preso d’assalto l’Europa”).
Poi c’è la ciccia dei dossier, ovviamente. I dazi, anzitutto, che vuol dire molto di più, vuol dire affrontare uno squilibrio commerciale endemico, troppo endemico tra partner. “Credo nell'unità dell'Occidente, dobbiamo semplicemente parlare e arrivare a dei risultati, e trovarci nel miglior punto intermedio per crescere insieme”: il mantra meloniano è “incontrarsi a metà strada”. Cioè, molto meno banalmente di quel che sembra, stare nel Deal, nel formato negoziale trumpiano. E infatti The Donald scandisce, per la prima volta in modo inequivocabile, che “si raggiungerà al 100% un accordo equo con l’Unione Europea” sulle tariffe commerciali (questo è purissimo risultato della Meloni mediatrice, ruolo che né la Francia, né la Germania, né alcun loro satellite riescono a giocare).
A ruota, la ...