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Trentacinque anni fa il crollo del comunismo ci coglieva ancora piuttosto giovani e senza dubbio molto ottimisti sul futuro dell’Occidente. Se morivano uno dietro l’altro i regimi comunisti, vi era però una metastasi inarrestabile che si spargeva ovunque. Un coacervo purulento di ideologie – sovietista, maoista, terzomondista (Lenin, Mao e Houari Boumédiène, per semplificare) – investiva in pochi anni tutto il mondo occidentale. Non era l’ideologia idonea per un vero assalto al cielo, né per un qualsivoglia ribaltamento dei rapporti di produzione – e infatti i governi proseguirono imperterriti per la loro strada riassumibile in “più tasse, più debito, più spesa pubblica” – ma era perfettamente adeguata a distruggere il nostro mondo dall’interno. Questa subcultura, che tendeva a mettere in stato di accusa tutta la civiltà occidentale, vedeva un’unica fonte del male: il maschio eterosessuale euro-americano. E attecchiva in tutte le cittadelle del sapere: da Berkeley a Harvard, da Londra alla Sorbona, da Heidelberg a Palermo.
L’Occidente che aveva battuto il comunismo incominciava a odiare se stesso con tutte le sue forze: perlopiù accademiche. I giovani studenti occidentali in poco tempo diventarono come automi, sempre più somiglianti a persone finite nelle grinfie di una setta, satanica o meno, che istigava loro a odiare la propria cultura.
Ed è qui che, solo pochi anni fa, si colloca l’impegno di Charlie Kirk, un giovane cristiano, conservatore, convinto dell’importanza del dialogo e sostenitore del governo limitato, del free speech e del capitalismo: in una parola dell’Occidente. Charlie aveva capito che lo scontro delle idee era cruciale, che l’Occidente stava perdendo le sue forze migliori proprio a causa del lavaggio del cervello in atto nei migliori quartieri accademici. E aveva deciso di dedicare la sua vita a una battaglia culturale per l’anima dell’America proprio nei campus americani, in mezzo a quegli automi morali che dovevano essere risvegliati. Il lavoro di Charlie – che usava certo abbondantemente l’ironia, ma non ha mai mancato di rispetto ...
Occhio alle prossime ore, perché sarà tutta una corsa del Giornalista Collettivo a piazzare trappole sulla possibilità di un racconto onesto del summit tra Donald Trump e Vladimir Putin, storia che si svolge davanti agli occhi e irrita le menti ideologiche. Si isoleranno alcuni fotogrammi e se ne cestineranno altri, si ricamerà sul battimani con cui il presidente americano ha accolto l’ospite e si depotenzierà la portata ultrasimbolica dell’inedito avvenuto poco dopo, il megabombardiere B-2 (eccellenza dell’aeronautica Usa e solo di quella, ciò che ha permesso di annichilire il programma nucleare iraniano, per capirci) che sorvola il capo dello Zar a ricordargli l’asimmetria di potenza convenzionale.
Se vogliamo uscire dal giochino propagandistico dei dettagli, bisogna tenere ferma la cornice generale e il risultato specifico. La prima è emersa chiaramente dal lessico ricorrente nella conferenza stampa dei due (“affari”, “Artico”, “cooperazione commerciale”, “relazioni bilaterali”): in Alaska NON si è parlato solo di Ucraina. Perché, fortunatamente, l’agenda del mondo non la fanno i nostri (a volte nobili) desideri ombelicali. In Alaska si è iniziato un tentativo di ristrutturazione del (dis)ordine globalista, più che globale, rispetto a cui pesi e obiettivi dei due interlocutori sono palesemente sbilanciati, ma potenzialmente sovrapposti. Trump pensa e agisce da capo della potenza mondiale egemone (l’ “isolazionismo” esiste solo in qualche anfratto Maga particolarmente folkloristico, come ha dimostrato la questione iraniana) e mira ad arrestare e invertire il paradossale flusso di una globalizzazione promossa dall’Occidente a oggettivo vantaggio della potenza emergente, dicesi Cina. Putin pensa e agisce da despota di una potenza regionale atipica, perché dotata di proiezione nucleare globale e ultimativa, e mira sostanzialmente alla riammissione tra gli architetti del nuovo ordine. Da questo punto di vista, il suo virgolettato-chiave è: “Gli accordi di oggi sono un punto di partenza per nuove relazioni pragmatiche con gli Stati Uniti”. Il punto in cui le due ottiche s’intersecano è: divincolare la Russia dall’abbraccio con la Cina (visuale americana), o ...