Trump-Putin: avanza la pace, arretra la Cina, rosiconi smentiti
Giovanni Sallusti · 16 Agosto 2025

Occhio alle prossime ore, perché sarà tutta una corsa del Giornalista Collettivo a piazzare trappole sulla possibilità di un racconto onesto del summit tra Donald Trump e Vladimir Putin, storia che si svolge davanti agli occhi e irrita le menti ideologiche. Si isoleranno alcuni fotogrammi e se ne cestineranno altri, si ricamerà sul battimani con cui il presidente americano ha accolto l’ospite e si depotenzierà la portata ultrasimbolica dell’inedito avvenuto poco dopo, il megabombardiere B-2 (eccellenza dell’aeronautica Usa e solo di quella, ciò che ha permesso di annichilire il programma nucleare iraniano, per capirci) che sorvola il capo dello Zar a ricordargli l’asimmetria di potenza convenzionale.
Se vogliamo uscire dal giochino propagandistico dei dettagli, bisogna tenere ferma la cornice generale e il risultato specifico. La prima è emersa chiaramente dal lessico ricorrente nella conferenza stampa dei due (“affari”, “Artico”, “cooperazione commerciale”, “relazioni bilaterali”): in Alaska NON si è parlato solo di Ucraina. Perché, fortunatamente, l’agenda del mondo non la fanno i nostri (a volte nobili) desideri ombelicali. In Alaska si è iniziato un tentativo di ristrutturazione del (dis)ordine globalista, più che globale, rispetto a cui pesi e obiettivi dei due interlocutori sono palesemente sbilanciati, ma potenzialmente sovrapposti. Trump pensa e agisce da capo della potenza mondiale egemone (l’ “isolazionismo” esiste solo in qualche anfratto Maga particolarmente folkloristico, come ha dimostrato la questione iraniana) e mira ad arrestare e invertire il paradossale flusso di una globalizzazione promossa dall’Occidente a oggettivo vantaggio della potenza emergente, dicesi Cina. Putin pensa e agisce da despota di una potenza regionale atipica, perché dotata di proiezione nucleare globale e ultimativa, e mira sostanzialmente alla riammissione tra gli architetti del nuovo ordine. Da questo punto di vista, il suo virgolettato-chiave è: “Gli accordi di oggi sono un punto di partenza per nuove relazioni pragmatiche con gli Stati Uniti”. Il punto in cui le due ottiche s’intersecano è: divincolare la Russia dall’abbraccio con la Cina (visuale americana), o divincolarsi dalla condizione obbligata di vassallo di Xi (visuale russa).
Primo punto, prima notizia parziale e parzialmente positiva: dall’Alaska parte “una strada diversa” (questo è Trump) che “sugli affari” ha già ingranato, e ha “buone possibilità anche su altro”. Altro, ovviamente, è il punto specifico, che non è l’intero ma non è nemmeno il residuo: la guerra alle porte d’Europa. Che “se fosse stato lui presidente, non sarebbe esistita”. Occhio, la dichiarazione di Putin è tutt’altro che di prammatica, anzi dev’essergli costata non poco, perché ammette (neanche troppo) implicitamente che Donald Trump possiede delle leve negoziali persuasive nei suoi confronti, roba non troppo dissimile dal B-2 di cui sopra (e dalla credibilità che la potenza possa tradursi in atto, a differenza di Biden), per capirci.
In ogni caso, il punto d’arrivo temporaneo dello Zar è: “Spero che l’intesa di oggi apra la strada alla pace in Ucraina”. Pochissimo, quasi nulla per chi anche oggi purtroppo rimarrà esanime sul terreno. Non poco per il processo negoziale che ieri, ormai lo possono negare solo i talebani dell’antitrumpismo, si è aperto. Al punto che Putin si dichiara “pronto a lavorare sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. Dissimulatio, artifici vaporosi da scuola Kgb? Certo, ovviamente anche, ma il gioco è questo, non è un minuetto, è la durezza russa degli scacchi mista alla vertigine americana del poker. In ogni caso, se l’interesse supremo del russo è recuperare riconoscimento, pragmatismo delle relazioni e opportunità economiche (e su questo tema l’altro ha una scala reale, lui al massimo una coppia sbiadita), si trascina a ruota la consapevolezza che la mattanza in qualche modo dovrà finire. È probabilmente la consapevolezza cui si riferisce Trump, quando definisce questo in Alaska “il nostro migliore incontro” in cui “sono stati fatti grandi compromessi”. Poi, scandisce chiaramente davanti all’interlocutore che parlerà con la Nato e parlerà con Zelensky: non esiste lo scacco matto di Putin, la rottura dell’unità d’Occidente. Certo, serve che anche l’altra metà occidentale, quella europea, sia lucida, non insegua gli spettri macroniani dell’autosufficienza militare da Washington (risate in sala), non si riduca ancora una volta a Eurocrazia, tenga fermo l’interesse delle nazioni, che qui è la fine della mattanza.
Intanto, in Alaska è arretrata (più di quanto appaia) la Cina, è avanzata (fisiologicamente troppo poco) la pace, i rosiconi possono taroccare il bilancio quanto vogliono, ma non hanno un’alternativa, non l’hanno mai avuta.