Dottori: Usa e Cina preparano la nuova guerra fredda

· 20 Luglio 2025


Questa settimana, a “Parlando liberaMente”, la nostra intervista settimanale con i protagonisti della politica, dell’attualità, del giornalismo, Giovanni Sallusti discute di politica internazionale, dei conflitti in corso e delle strategie di Donald Trump con Germano Dottori, politologo, esperto di studi strategici e di politica estera, consigliere scientifico di Limes.

La trappola di Tucidide è pronta a scattare fra Usa e Cina? “Tucidide è il padre di tutti i realisti, però  l’antagonismo fra potenze non necessariamente conduce al conflitto armato: noi abbiamo avuto l’esperienza della guerra fredda in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si guardarono in cagnesco per decenni, ma mai giunsero al punto di non ritorno di farsi la guerra, e siamo tutti vivi e vegeti grazie a questo fatto. Fermo restando che si va probabilmente verso una nuova forma di duopolio sul mondo, dobbiamo avere fiducia e ritenere possibile che questo confronto si sviluppi in modo pacifico. D’altra parte c’è un fattore in più che è estremamente positivo: la Cina non è l’Unione Sovietica. L’Unione Sovietica era un’economia autarchica, chiusa in se stessa, con pochissime interazioni con il resto del mondo; la Cina invece per prosperare deve commerciare, deve esportare, deve avere a disposizione mercati aperti, rotte aperte, non si può permettere un conflitto armato con gli Stati Uniti, che controllano le vie di navigazione e l’aerospazio. Pechino dovrà accettare questo stato di cose e proseguire lungo la via della cosiddetta ascesa pacifica, anche se non dobbiamo meravigliarci che – data la crescente dipendenza della Cina dai mercati esterni per le proprie esportazioni, ma anche per l’acquisizione di materie prime e tutto quello che le serve per prosperare – stia sviluppando uno strumento militare che le consentirà anche una significativa proiezione internazionale, ben al di là delle sue acque territoriali: in particolare l’Africa, l’Asia centrale e forse anche l’America Latina. Vedremo in che modo gli Stati Uniti reagiranno nel momento in cui la Cina diventasse forte nel continente americano, nel quale gli Usa tendono tuttora ad applicare varianti della dottrina Monroe, perché considerano l’emisfero occidentale come proprio”.

“I dazi piacciono a Trump da decenni, si parla dagli anni ’80, quindi non era imprevedibile il fatto che pensasse di utilizzarli: lui li sta impiegando come strumenti a finalità multipla, per proteggere l’economia americana, restituire smalto alle manifatture, e al contempo per negoziare delle contropartite politiche, per esempio dagli alleati nell’Alleanza atlantica”.

“Di Trump c’è qualche cosa di più grande che ci sfugge, e questo provoca il pregiudizio nei suoi confronti. Non è un imperialista, è un nazionalista: quello che sostanzialmente sta facendo è dismettere l’impero informale degli Stati Uniti, che aveva e ha tutt’ora due componenti basilari: una è militare, la presenza avanzata di basi all’estero, e l’altra è l’uso del mercato americano come collante, offrire sbocchi alle esportazioni degli alleati per legarli a sé, quasi come fosse una forma di sovvenzione”.

Alla Russia conviene avvicinarsi alla Cina, con il rischio di diventarne vassallo? “Questo è il nostro modo di guardare alla situazione, lo percepiamo così. Ma va detto che in Russia, almeno nei circoli che contano, c’è una dialettica molto forte tra coloro che guardano la situazione dell’Occidente e vorrebbero raggiungere un accordo di pacifica coesistenza, e altri che invece preferiscono scommettere sulla Cina come attore in grado di cambiare le regole del gioco che condizionano e disciplinano le relazioni internazionali, almeno quelle tra le grandi potenze. Dal mio punto di vista, i russi stanno discutendo tra loro su quale sia il male minore: se dovessero propendere per la strada che conduce a Pechino, rischiano di danneggiare in modo significativo gli interessi nazionali del loro Paese, nel lungo termine. Ma questa è una valutazione che facciamo noi da Occidente, bisognerebbe ascoltare qualcuno a Mosca. Il problema è che dal momento in cui i russi hanno invaso l’Ucraina e sostanzialmente abbiamo deciso di interrompere i rapporti tra noi e loro, è anche più difficile capire come si sta evolvendo il dibattito interno alla Russia. Speriamo che a Mosca accada qualcosa che rafforzi quella parte del sistema politico che si sente ancora agganciata all’Europa, se non proprio all’Occidente”.

“Nel momento in cui Trump decide che l’impero informale non conviene più, si vedono da un lato il ritiro dei soldati che si trovano all’estero e quindi la richiesta agli alleati di provvedere maggiormente alla propria difesa e sicurezza; e dall’altro lato la chiusura del mercato perché non c’è più bisogno di sovvenzionare gli alleati, gli alleati sono diventati competitori. Tutto questo è molto cogente, tutt’altro che il risultato di un’improvvisazione, e rappresenta per noi una sfida: dobbiamo ricordare che Trump non è soltanto un attore o un promotore di cambiamento, ma riflette una richiesta di novità e di cambio di approccio. Trump ha vinto due elezioni presidenziali e in quella di mezzo ha mancato la vittoria per un soffio, quindi c’è un grado di condivisione del suo progetto sul quale dovremmo riflettere perché verosimilmente non verrà meno, salvo che non si verifichino circostanze al momento imprevedibili”.

Come si spiega il fronte aperto da Israele in Siria? “Le ragioni sono diverse, intanto la prima, fondamentale, è che con i drusi gli israeliani hanno rapporti che intendono tutelare; in secondo luogo credo anche che Israele stia cercando di definire le regole del gioco con il nuovo interlocutore che è arrivato al potere a Damasco. Siamo in una fase di ridefinizione delle relazioni bilaterali in cui, come sempre capita in Medio Oriente, la forza ha un ruolo che in altre parti del mondo non ha, in particolare non ce l’ha all’interno dell’Europa comunitaria. Questo spiega anche perché tutto quello che capita fuori dall’Europa ci sembra così strano, così astruso, così incomprensibile”.

“Netanyahu è arrivato al potere e ci è tornato più volte sempre insistendo sull’obiettivo della sicurezza, Netanyahu vuole avere per Israele confini sicuri e comunque un contesto anche regionale in cui Israele possa prosperare e ragionevolmente ritenere di essere protetto dalle minacce. Tutto questo è possibile soltanto relativamente, ed è diventato anche più complicato come obiettivo da conseguire perché oramai lo sviluppo della tecnologia, la proliferazione missilistica etc., hanno ampliato notevolmente il novero degli avversari da cui Israele si deve guardare – penso in modo particolare all’Iran. Ma fintanto che l’esistenza di Israele non verrà accettata da tutti i Paesi della regione, la politica estera israeliana avrà sempre una componente militare piuttosto pronunciata, e continueremo a vedere fasi in cui le forze armate vengono impiegate attivamente al di fuori dei confini del Paese”.

In Siria sembra sia caduto l’abbaglio dei ‘talebuoni’: “Tante volte la speranza ci induce a trascurare alcuni elementi dei trascorsi delle persone con le quali vogliamo avviare interlocuzioni. Abbiamo creduto a lungo che la fine del regime di Assad potesse comportare un futuro diverso per la Siria e anche per le nostre relazioni con quel Paese, e dobbiamo riconoscere che probabilmente molte di queste speranze sono state mal riposte: non basta dismettere l’abbigliamento da jihadista e indossare il doppio petto per cambiare, in più bisogna anche tener conto di tutti i condizionamenti di cui un Paese come la Siria soffre a causa della sua storia, della sua composizione etnica, delle pressioni che vengono esercitate nei suoi confronti, non è una condizione facile. Francamente non c’è da essere molto ottimisti rispetto a ciò che potrà accadere, tante cose sono cambiate, è cambiata anche la postura della Turchia: la Turchia è un Paese fondamentale dell’Alleanza atlantica, ma non possiamo più considerarla al 100% uno Stato parte dell’Occidente, è qualcosa che sta nel mezzo, nel pieno di una fase di ri-dimensione della propria identità, e sta sviluppando una politica di potenza che si avverte fortemente anche in Siria. In realtà in Siria si scontrano da un lato gli israeliani e dall’altro i turchi e per certi versi anche gli iraniani, seppure gli iraniani in questa fase siano considerevolmente indeboliti dai risultati del loro duello con Israele”.


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