Con l’articolo 10 del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80, è stato introdotto nel codice penale l’art. 634-bis, che punisce «chiunque arbitrariamente si introduce nell’altrui domicilio o vi si trattiene contro la volontà dell’avente diritto», prevedendo la reclusione da due a sette anni. Si tratta, formalmente, di una reazione all’allarmante diffusione delle occupazioni abusive di immobili.
Ma l’apparenza inganna. Perché la norma, pur nella sua dichiarata intenzione repressiva, viene presentata dalla Cassazione non come uno strumento di giustizia, ma come un potenziale problema per chi occupa. È la Corte stessa, nella Relazione n. 33/2025 del Massimario, a lamentare che la norma potrebbe «determinare, nei casi in cui venga dato corso a un procedimento penale, conseguenze gravemente pregiudizievoli per gli occupanti, anche in presenza di situazioni di vulnerabilità sociale». Aggiungendo poi che «la previsione di una procedura accelerata di esecuzione del provvedimento di sgombero» comporta «criticità rispetto alla tutela dei diritti fondamentali».
Questi rilievi, che nella forma si presentano come osservazioni tecniche, nella sostanza svuotano la portata della disposizione. Il centro dell’analisi non è il danno subito da chi è stato privato del proprio bene, ma il disagio eventuale di chi ne ha preso possesso senza titolo. La posizione del legittimo proprietario è pressoché assente. Nessuna considerazione è dedicata al fatto che l’immobile, pur in buone condizioni, può essere reso inservibile dall’occupazione. Che il proprietario, in molti casi, continua a pagare imposte, bollette e mutui, senza poter disporre di quanto è suo. Che l’unico reato commesso, in fondo, è quello di aver rispettato la legge.
È proprio questa l’anomalia: la giustizia che guarda con sospetto il diritto e con indulgenza l’abuso. Invece di domandarsi se l’occupazione abusiva rappresenti una violazione inaccettabile dell’ordine giuridico, gli Ermellini si chiedono se l’intervento dello Stato non sia troppo severo. Lo fanno anche quando lamentano che «l’applicazione del nuovo reato, accompagnata da misure esecutive immediate, rischia di non lasciare spazio ad alcuna valutazione di merito sulla posizione dell’occupante». Ma cosa ci sarebbe da valutare? Se un immobile è occupato contro la volontà del titolare, non c’è equilibrio da trovare: c’è un diritto da ripristinare.
Così i Giudici di ultima istanza assumono, implicitamente, una funzione di filtro tra la legge e la sua applicazione. Ne interpretano lo spirito in modo selettivo, e finisce per rovesciarne il significato. Non è un caso che il loro giudizio complessivo sulla norma sia segnato dalla perplessità: la scelta del legislatore viene definita come «potenzialmente idonea a produrre tensioni applicative e conflitti di ordine costituzionale». E ancora: «l’assenza di meccanismi di bilanciamento potrebbe comportare un aggravamento della marginalizzazione sociale degli occupanti».
Tutto questo ribalta la logica del diritto. È l’abusivo a diventare soggetto fragile, e il proprietario, paradossalmente, a doversi giustificare per voler rientrare in possesso della propria casa. Si legittima così una forma di esproprio di fatto, mascherata da necessità sociale. Tuttavia, vi è da considerare che un bisogno non autorizza a violare la legge, né trasforma un sopruso in un’alternativa legittima. E uno Stato che non distingue chiaramente tra chi rispetta le regole e chi le aggira, non garantisce giustizia: ne distribuisce arbitrariamente i resti.
Non si può non osservare come la Relazione, con il suo stile notarile, eviti ogni richiamo ai fondamenti su cui si regge l’ordine civile. Nessuna parola sulla funzione sociale della proprietà, non in chiave redistributiva ma come presidio di responsabilità e limite al potere. Nessuna riflessione sul fatto che, se chi rispetta la legge viene messo in condizione di subire un danno senza rimedio, la legge stessa diventa strumento di iniquità.
La conseguenza è una visione distorta della legalità: non più vincolo certo, ma trama da interpretare. Non più difesa della persona e dei suoi beni, ma valutazione di contesto. E così la giustizia, anziché proteggere chi è stato danneggiato, finisce per giustificare chi ha danneggiato. L’arbitrio si fa “situazione”, la violazione si fa “fragilità”, il diritto si fa “rigidità eccessiva”.
Chi occupa senza titolo non è titolare di alcun diritto. E chi difende il contrario, anche se ammantato d’autorità, non compie un atto neutrale: legittima una forma di violenza. Il compito della giustizia è di distinguere, non di confondere. Di affermare, non di attenuare. Di difendere la legalità, non di giustificare l’illegalità.
Il problema del Massimario è che sospetta del diritto e simpatizza con l’abuso
Sandro Scoppa · 3 Luglio 2025
Con l’articolo 10 del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80, è stato introdotto nel codice penale l’art. 634-bis, che punisce «chiunque arbitrariamente si introduce nell’altrui domicilio o vi si trattiene contro la volontà dell’avente diritto», prevedendo la reclusione da due a sette anni. Si tratta, formalmente, di una reazione all’allarmante diffusione delle occupazioni abusive di immobili.
Ma l’apparenza inganna. Perché la norma, pur nella sua dichiarata intenzione repressiva, viene presentata dalla Cassazione non come uno strumento di giustizia, ma come un potenziale problema per chi occupa. È la Corte stessa, nella Relazione n. 33/2025 del Massimario, a lamentare che la norma potrebbe «determinare, nei casi in cui venga dato corso a un procedimento penale, conseguenze gravemente pregiudizievoli per gli occupanti, anche in presenza di situazioni di vulnerabilità sociale». Aggiungendo poi che «la previsione di una procedura accelerata di esecuzione del provvedimento di sgombero» comporta «criticità rispetto alla tutela dei diritti fondamentali».
Questi rilievi, che nella forma si presentano come osservazioni tecniche, nella sostanza svuotano la portata della disposizione. Il centro dell’analisi non è il danno subito da chi è stato privato del proprio bene, ma il disagio eventuale di chi ne ha preso possesso senza titolo. La posizione del legittimo proprietario è pressoché assente. Nessuna considerazione è dedicata al fatto che l’immobile, pur in buone condizioni, può essere reso inservibile dall’occupazione. Che il proprietario, in molti casi, continua a pagare imposte, bollette e mutui, senza poter disporre di quanto è suo. Che l’unico reato commesso, in fondo, è quello di aver rispettato la legge.
È proprio questa l’anomalia: la giustizia che guarda con sospetto il diritto e con indulgenza l’abuso. Invece di domandarsi se l’occupazione abusiva rappresenti una violazione inaccettabile dell’ordine giuridico, gli Ermellini si chiedono se l’intervento dello Stato non sia troppo severo. Lo fanno anche quando lamentano che «l’applicazione del nuovo reato, accompagnata da misure esecutive immediate, rischia di non lasciare spazio ad alcuna valutazione di merito sulla posizione dell’occupante». Ma cosa ci sarebbe da valutare? Se un immobile è occupato contro la volontà del titolare, non c’è equilibrio da trovare: c’è un diritto da ripristinare.
Così i Giudici di ultima istanza assumono, implicitamente, una funzione di filtro tra la legge e la sua applicazione. Ne interpretano lo spirito in modo selettivo, e finisce per rovesciarne il significato. Non è un caso che il loro giudizio complessivo sulla norma sia segnato dalla perplessità: la scelta del legislatore viene definita come «potenzialmente idonea a produrre tensioni applicative e conflitti di ordine costituzionale». E ancora: «l’assenza di meccanismi di bilanciamento potrebbe comportare un aggravamento della marginalizzazione sociale degli occupanti».
Tutto questo ribalta la logica del diritto. È l’abusivo a diventare soggetto fragile, e il proprietario, paradossalmente, a doversi giustificare per voler rientrare in possesso della propria casa. Si legittima così una forma di esproprio di fatto, mascherata da necessità sociale. Tuttavia, vi è da considerare che un bisogno non autorizza a violare la legge, né trasforma un sopruso in un’alternativa legittima. E uno Stato che non distingue chiaramente tra chi rispetta le regole e chi le aggira, non garantisce giustizia: ne distribuisce arbitrariamente i resti.
Non si può non osservare come la Relazione, con il suo stile notarile, eviti ogni richiamo ai fondamenti su cui si regge l’ordine civile. Nessuna parola sulla funzione sociale della proprietà, non in chiave redistributiva ma come presidio di responsabilità e limite al potere. Nessuna riflessione sul fatto che, se chi rispetta la legge viene messo in condizione di subire un danno senza rimedio, la legge stessa diventa strumento di iniquità.
La conseguenza è una visione distorta della legalità: non più vincolo certo, ma trama da interpretare. Non più difesa della persona e dei suoi beni, ma valutazione di contesto. E così la giustizia, anziché proteggere chi è stato danneggiato, finisce per giustificare chi ha danneggiato. L’arbitrio si fa “situazione”, la violazione si fa “fragilità”, il diritto si fa “rigidità eccessiva”.
Chi occupa senza titolo non è titolare di alcun diritto. E chi difende il contrario, anche se ammantato d’autorità, non compie un atto neutrale: legittima una forma di violenza. Il compito della giustizia è di distinguere, non di confondere. Di affermare, non di attenuare. Di difendere la legalità, non di giustificare l’illegalità.
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Sandro Scoppa
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