“Parlando liberaMente” con Marco Patricelli: tutte le resistenze cancellate dai comunisti
Giovanni Sallusti · 26 Aprile 2025
Questa settimana l’ospite di “Parlando liberaMente”, la nostra intervista con i protagonisti della politica, dell’attualità, del giornalismo, è Marco Patricelli, storico, esperto del Novecento e della Seconda guerra mondiale, ed editorialista del quotidiano Libero. Con Giovanni Sallusti discute degli equivoci e dei falsi storici legati alla ricorrenza del 25 aprile.
“Noi ci siamo illusi e siamo stati illusi di aver pareggiato una guerra, pretendendo poi di apparire al fianco di coloro che l’avevano vinta. Ma il peccato originale resta: abbiamo combattuto la Seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata e l’abbiamo malamente persa. E il periodo 1943-45 è stato quello più nefasto, perché ha inserito nella guerra di liberazione l’elemento della guerra civile”.
“È stato un certo intorpidimento della lettura critica della storia a causare questa anomalia: il 25 aprile non dovrebbe essere neppure discusso, né posto come oggetto politico sul quale far incontrare o scontrare le idee. Ed è un’anomalia tutta italiana: se andiamo a un convegno o a un incontro ufficiale all’estero e raccontiamo che questo Paese è stato liberato dai partigiani e che il 25 aprile è la loro festa, il minimo che ci possiamo aspettare è degli sguardi perplessi”.
La Resistenza è stata una polifonia, non è un canto monolitico, per cui sarebbe più corretto parlare di “Resistenze”, al plurale, da qui il lavoro di decostruzione: “Decostruire non significa né svilire né ridimensionare. Significa dare una lettura storica di quello che è accaduto guardando tutti gli aspetti, quelli che ci piacciono e quelli che non ci piacciono. Il percorso storico di questo Paese è stato condizionato da due racconti divenuti mitologia. Uno è il Risorgimento, di cui si è appropriato il fascismo per darne una lettura distorta; e l’altro è la Resistenza, quindi la guerra di liberazione, che è stata raccontata in maniera semplificata e da un’angolazione che non rispettava quel coacervo di problemi, di situazioni, di contrasti e anche di odii che caratterizzarono il biennio dei 600 giorni di Salò”.
La Resistenza, in realtà, è cominciata grazie a un reparto dei Carabinieri, che diede il via al primo scontro armato, ma questo fatto è stato dimenticato, le stellette sono state tenute nell’ombra. “Per decenni i nostri militari sono andati in libera uscita vestiti in borghese, perché l’esercito portava un marchio di infamia per quella guerra perduta e combattuta, nella prima parte, dalla parte sbagliata. Lo stesso è accaduto con la bandiera italiana: lo sdoganamento del tricolore, al di là delle manifestazioni ufficiali, è avvenuto solo con la vittoria al Mondiale di calcio del 1982: il fatto che i nostri calciatori cantino l’inno nazionale è qualcosa di molto recente”.
Questa incomprensione culturale ha occultato ‘la Resistenza con le stellette’: “In realtà solo i militari potevano resistere, perché solo loro avevano le armi e sapevano come usarle: le stesse prime bande partigiane avevano una forte impronta militare. Non possiamo pensare che si potesse fare la Resistenza con le doppiette o con le falci o con i forconi”.
L’esempio “cancellato” della Brigata Maiella: “La sua storia è il primo segnale evidente che il monolite della Resistenza non esisteva. A dicembre del 1943 sulla “linea Gustav” del fronte, quindici persone, giovani, gente semplice, guidate da un intellettuale antifascista della prima ora, l’avvocato Ettore Troilo, si legarono firmando con una matita su un foglietto un patto d’onore, con l’impegno ad aiutare gli inglesi a salvare i loro paesi minacciati dalla distruzione, poi a combattere i tedeschi. Gli inglesi, che disarmavano qualunque civile o militare incontrassero a eccezione dei Carabinieri, invece fornirono armi a questi volontari, che crebbero subito, diventarono oltre 500 nell’arco di pochi giorni e combatterono fianco a fianco con gli inglesi. Questa formazione autonoma e irregolare fu inquadrata nell’Ottava armata britannica e nel Quinto corpo d’armata inglese, aveva un tesserino militare, rispondeva in via amministrativa al regio esercito, ma da esso non prendeva ordini”.
“I maiellini indossavano l’uniforme inglese; ma sul bavero, rifiutando di giurare fedeltà al re che ritenevano corresponsabile di quel disastro, adottarono un nastrino tricolore perché combattevano nel nome dell’italianità. La loro bandiera è la prima bandiera di guerra riconosciuta; e sarà l’unica, con 20 anni di ritardo, a essere stata decorata di medaglia d’oro al valore militare, poiché non apparteneva al Corpo volontari della libertà, non c’era un commissario politico. Erano soldati inquadrati in un esercito che combatteva per la liberazione dell’Italia. Non erano partigiani, perché non conducevano guerriglia alle spalle del fronte, ma erano al fronte e hanno obbedito a ordini militari inseriti in un piano strategico”.
Ci fu anche una Resistenza umanitaria e contadina, disarmata, che però fu molto importante ed è stata dimenticata: “Dopo l’8 settembre ci fu il caos e vennero aperti i campi di prigionia. In Abruzzo ce n’erano tantissimi, perché era storicamente terra di confino, basti ricordare il passaggio di Boccaccio nel Decameron, “più in là che Abruzzi” per indicare un luogo lontano, dimenticato. Questa massa di uomini si riversò sul territorio, non sapeva dove andare, aveva bisogno di tutto. La povera gente dei paesi di montagna li soccorreva, li sfamava, li nascondeva, li vestiva, li sottraeva alle retate dei tedeschi prima e dei nazifascisti dopo. Questa è un’altra pagina pressoché cancellata nella memoria collettiva, perché indicava che c’era anche un altro modo per contribuire alla guerra di liberazione, nel nome dei valori dell’umanità, e anche della cristianità. Una volta due volontari maiellini andarono a recuperare un sergente tedesco ferito che nessuno voleva aiutare perché c’era battaglia. Il tedesco ce la fece, ma uno dei due volontari venne ucciso da una scarica di mitragliatrice”.
“Un contadino che sfamò dei resistenti che si nascondevano disse loro ‘non ci sto capendo più niente, mezz’ora fa c’erano qui altri italiani, ma vestiti da tedeschi’. Noi pretendiamo col senno del poi che vi fosse assoluta chiarezza di un quadro politico, sociale, militare, internazionale, che invece era molto complesso: c’erano italiani che combattevano con gli Alleati, italiani con l’uniforme italiana, italiani con l’uniforme inglese, c’erano italiani che combattevano con un’altra uniforme italiana e altri ancora addirittura con l’uniforme tedesca”.
“Parlare di guerra civile è stato sempre difficile perché andava a toccare il nervo scoperto del modulo narrativo sul periodo 1943-45, almeno fino agli studi dello storico ex partigiano Claudio Pavone; e a quelli di Renzo de Felice quando parlò della zona grigia, dell’attendismo di quelli che non avevano la forza o il coraggio di schierarsi né da una parte né dall’altra. E ci furono italiani che si schierarono anche dall’altra parte, quella già sconfitta, ragazzi di 19 o 20 anni che avevano vissuto solo quella realtà e stentavano a capire che cosa stava succedendo”.
“La storia non è una torta a mille foglie dove ognuno si prende lo strato che gli piace e scarta tutto il resto e poi pensa di conoscere il sapore della torta. Ce la dobbiamo prendere tutta, con le luci e con le ombre”.
Un altro episodio che dà da riflettere sulla complessità della situazione e sul cortocircuito ideologico è la storia del contingente polacco a Bologna, fra le forze alleate: “I polacchi incontrarono dei partigiani che ostentavano le bandiere rosse, mostravano il pugno chiuso e inneggiavano a Stalin. Un ufficiale polacco scese dalla sua vettura e strappò la bandiera rossa perché per lui, per loro, era un segno di oppressione. Quei soldati polacchi, infatti, venivano tutti dai gulag in cui erano stati internati dopo che il 17 settembre 1939, Stalin, in ossequio al patto Ribbentrop-Molotov, aveva invaso la Polonia senza dichiarazione di guerra, aveva deportato tutti gli ufficiali e buona parte dei soldati, e anche le famiglie. Di questi ufficiali 22mila vennero giustiziati con un colpo alla nuca a Katyn, altri furono deportati in Siberia. Quando Stalin venne attaccato da Hitler si dovette decidere il destino militare di questi polacchi, che con un viaggio allucinante arrivarono sino in Persia, poi in Palestina e poi in Italia, ricostituiti in esercito come Secondo corpo d’armata. Il motto dei soldati polacchi era “per la nostra e la vostra libertà”: ma combatterono solo per la nostra, perché dopo Yalta non poterono più tornare nella loro Polonia”.
“Tutti i documenti alleati hanno una visione di assoluto sfavore nei confronti della guerra partigiana. Gli inglesi dicevano che loro non stavano gettando il sangue dei loro soldati per liberare l’Italia affinché divenisse uno stato di modello sovietico. E Churchill stesso, finché potè, si oppose allo sbarco in Normandia perché secondo lui era prioritario arrivare nel nord est dell’Italia e bloccare la via dei Balcani alla penetrazione comunista. Non a caso le formazioni partigiane venivano regolarmente disarmate dagli inglesi e dagli americani, lo faceva la stessa Brigata Maiella. Quegli uomini potevano partecipare alla lotta di liberazione, ma a titolo individuale, e infatti molti entrarono nella stessa Brigata Maiella che così allargò i ranghi”.
“Dopo il 25 aprile ci fu una coda tragicomica: la corsa al “brevetto Alexander” (o “certificato al patriota”) dal nome del generale inglese che dopo Eisenhower fu comandante sul fronte mediterraneo. Quel foglio certificava l’appartenenza al fenomeno della Resistenza. Vennero effettuate 650mila domande e ne vennero riconosciute 137mila, meno dello 0,3% degli italiani, ma la guerra di liberazione non fu un fenomeno di massa. Il numero abnorme di richieste di brevetto Alexander è un elemento di svilimento dell’importanza della scelta resistenziale, perché scattò il “tengo-familismo” italiano, bastavano due testimonianze di episodi anche marginali o irrilevanti per poter spingere avanti queste domande, che avevano un risvolto molto pragmatico, perché quel documento costituiva una corsia preferenziale per il pubblico impiego”.
“Il mito dell’Anpi si sgretolò quasi subito, con le scissioni del 1948 e 1949, che portarono via tutte le anime della politica e della resistenza a eccezione di quella più estrema, quella socialcomunista. E oggi di FIVL, Federazione Italiana Volontaria della Libertà, o di FIAP, Federazione Italiana Associazione dei Partigiani, non parla nessuno. L’Anpi non ha fatto nulla per conservare quella matrice originaria pluralista, pluripartitica che aveva contraddistinto il Comitato di Liberazione Nazionale e la sua espressione armata che era il Corpo Volontario della Libertà, a capo del quale c’era un generale del Regio esercito, Raffaele Cadorna” (nipote di Luigi, comandante nella Prima guerra mondiale).
“Io ho prestato servizio militare e ho giurato, come tutte le reclute di allora, fedeltà alla Repubblica. Se qualcuno mi chiedesse se mi professo antifascista, non avrei nessuna difficoltà, ma non accetto il principio che ci sia un tizio che viene a chiedermi di fare una professione di fede, in base a che cosa? Che poi non è neanche una fede, è una patente rilasciata dalla storia: noi siamo antifascisti perché la parentesi del fascismo è stata chiusa definitivamente. È un’etichetta ormai vuota di significato, non ci contraddistingue, ma è ad excludendum: se tu non sei così, allora sei quell’altra cosa”.
Le bandiere palestinesi alle celebrazioni? “È un cortocircuito: non è un criterio storico quello che viene applicato nei requisiti di appartenenza e di condivisione della festa di liberazione. La festa di liberazione è di tutti gli italiani, altrimenti non sarebbe una festa nazionale. Quindi apportare questi elementi che sono presi dal presente e proiettati nel passato, per di più in un quadro che è assolutamente opposto a quello che oggi si vuole far credere, è un altro modo per imbarbarire la discussione e per svilire il valore morale e storico della guerra di liberazione e della festa”.