Il primo sudamericano. Il primo Gesuita. Il primo a chiamarsi Francesco, e chissà se gli seguirà un Francesco II. Ma anche il primo a mettere in discussione – agli occhi dei conservatori e del popolo delle parrocchie – la figura di Dio, indicato come “non cattolico”, il forte avvicinamento e dialogo con l’Islam, l’attenzione continua a favore di accoglienza e migranti in una critica per nulla dolce nei confronti dell’Occidente, specie in tempi di trumpismo. La morte di Papa Francesco completa il processo di desacralizzazione della figura papale che le clamorose dimissioni di Benedetto XVI aveva avviato: il Papa è un uomo, oltre che Vicario di Cristo, e con Francesco l’umano ha preso il sopravvento sul divino.
Sono lontani i tempi in cui, non riuscendo a prendere sonno, il Papa venuto da Sotto il Monte, Giovanni XXIII, si chiedeva: “Chi governa la Chiesa, tu o lo Spirito Santo? E allora, Angelo, va’ a dormire”. La Chiesa di Jorge Mario Bergoglio da Buenos Aires, un padre ragioniere da Portacomaro in provincia di Asti e una madre genovese, è una chiesa più gesuita che di Gesù. Gesuita nel discernere, nell’indicare, nell’abbozzare. E poi? E poi devi discernere tu, lasciarti guidare: perché non benedire le coppie dello stesso sesso? Ma certo: dieci secondi bastano. Un Dio che non è cattolico, la critica ai “cristiani di pasticceria”, quelli cioè che vanno in chiesa ma poi non applicano quello che dovrebbero applicare, l’accoglienza indiscriminata sia pure ricordando che il Catechismo dà agli Stati il diritto di regolare l’immigrazione (ma ricordandolo a denti stretti, un po’ come la modifica al Catechismo con la pena di morte: sì, è lecita ma siccome i tempi sono cambiati allora non lo è più).
Un Papato che è stato sotto il segno dell’accentramento, dell’uomo solo al comando per volontà divina e da lì, per li rami, giù verso tutta la Barca di Pietro e il gregge a lui affidato; insofferente alle categorie e le norme del diritto canonico, critico verso Ordini cavallereschi tipo i Cavalieri di Malta; un Papa confuso e confusionario che mentre con una mano predicava la misericordia e il perdono per tutti dall’altra ha aumentato la pena massima a cui si può essere condannati in Vaticano (35 anni anziché 30) e fatto celebrare processi come Vatileaks 2 con tanto di carcerazione e condanne. Sorridente con le folle, con chi non è a posto con la fede e quindi va accolto, ma severo con chi va in giro a convertire perché per lui questo non era essenziale né era essenziale lo zelo di chi pregava; buongiorno, buonasera, buon pranzo e nel frattempo la confusione dottrinale aumentava.
Francesco ha impostato la sua azione nella sua voglia di esserci, di farsi prossimo a tutti. Ha telefonato, rilasciato interviste in quantità mai viste, lette, udite o viste sin da quando, nel 1965, Alberto Cavallari del Corriere fece lo scoop intervistando Paolo VI, oggi Santo; un desiderio sacrosanto che è degenerato in voglia di piacere a tutti. Ha nominato personalità di sua estrema fiducia che non sempre sono state all’altezza o in alcuni casi rasentano il pittoresco o lasciano perplessi tipo il prefetto dell’ex Sant’Uffizio Victor Manuel Fernandez alias “Tucho besame mucho”, uno che annovera tra le sue opere teologiche un volumetto sui baci (roba che Joseph Ratzinger spostati proprio, e veloce, anche). Ha negoziato al ribasso accordi con il regime cinese per la libertà dei cinesi che professano il cattolicesimo nell’Associazione patriottica, “chiesa” per modo di dire creata nel 1958 da Mao Tze Tung che non riconosce l’autorità vaticana mentre 8 milioni di cattolici fedeli al Papa sono costretti a pregare negli scantinati o in aperta campagna; ha firmato encicliche nelle quali ha sposato allarmi sul cambiamento climatico più degni di Greta Thunberg che della Sposa di Cristo; ha instaurato un dialogo con parte dell’Islam credendo nell’abbraccio mentre spesso dall’altro lato si pensa alla sottomissione. La premessa era forse buona, il risultato è discutibile. Come con lo Ior, quella che è indicata a torto come la banca vaticana: avrebbe voluto cancellarla, poi però lo Ior è rimasto e già che c’era sono arrivate le grandi società di auditing ben pagate a controllare i bilanci.
A livello politico il Papa si è esposto, e non poco. Sia pure indicato come simpatizzante peronista in Argentina, si è espresso contro il mondo politico conservatore che – dal canto suo – non lo ha mai amato. Non ha amato Donald Trump, per esempio, contro il quale ha anche scritto una lettera invitando i vescovi americani a reagire alla politica trumpiana contro gli immigrati; ha strizzato l’occhio a Vladimir Putin parlando di Nato che “abbaiava” ai confini della Russia, definito Israele “invasore” di Gaza. Scivoloni gravissimi, a lui imputabili perché non mediati dall’abilità diplomatica del suo numero 2 (di nome ma non di fatto) Pietro Parolin, cardinale a capo della Segreteria di Stato. Aperturista verso il mondo Lgbtq+ ma contrario alla “frociaggine” nei seminari, ecologista che chiedeva di considerare anche gli ecopeccati e chiedeva – un po’ ironicamente – ai confessori domenicani di perdonare tutti. A livello italiano si è disinteressato delle nostre vicende politiche, permettendo alla Conferenza episcopale italiana di eleggere due presidenti di fila, Gualtiero Bassetti e Matteo Zuppi, entrambi cardinali, di evidenti simpatie a sinistra e con un interventismo in politica che ha scalzato tutto il pattuglione di deputati e senatori che nel mondo cattolico affondavano le radici.
Che cosa resterà di lui? Sarà il Papa della misericordia, ma anche e soprattutto quello dei migranti, pronto a benedire l’Ong dell’ex no-global Luca Casarini, uno che in privato se ne usciva con espressioni non molto salottiere verso le sante tonache che lo finanziano. Resterà il suo carattere campechano, alla mano come si dice in spagnolo, ma anche i suoi scatti come quando tirò uno schiaffo sulla mano di una fedele cinese un po’ troppo insistente ritraendosene di malumore. Resterà soprattutto un dubbio: chi curerà la sua eredità culturale e spirituale, visto che il Grande Accentratore aveva i suoi consiglieri del momento che poi, a tempo debito, sparivano senza nemmeno la promozione a vescovo in qualche diocesi almeno di Serie B, vedasi qualche gesuita indicato come potentissimo consigliere di Sua Santità.
Non c’è un segretario particolare forte come fu per Giovanni Paolo II, per esempio, con il fido Stanislao Dziwisz a fare da filtro e assistere il Papa sempre più anziano. Resta una grande confusione e passi in avanti subito bilanciati da passi indietro che hanno dato false illusioni a sinistra e scontenti a destra, oltre che ad ambo le parti. Un bel rebus per il successore, che dovrà probabilmente essere una figura di mediazione, con buone conoscenze della macchina curiale, per riportare il timone al centro e non sarà facile. Al netto di sorprese dello Spirito Santo, perché stiamo pur sempre parlando di Chiesa. I nomi? Luis Antonio Tagle, il “papa rosso”; Pietro Parolin il diplomatico di lungo corso con ottimi rapporti in America (con i trumpiani è altro paio di maniche); Matteo Zuppi che potrebbe essere il “Pietro Romano” della profezia di Malachia; e Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme e gran conoscitore della Questione mediorientale. Ma Dio solo lo sa, credete a noi, chi sarà il prossimo Vicario di Cristo.
Fede e woke: addio a Francesco, il Papa dai due volti e dai troppi mondi
Antonino D'Anna · 22 Aprile 2025
Il primo sudamericano. Il primo Gesuita. Il primo a chiamarsi Francesco, e chissà se gli seguirà un Francesco II. Ma anche il primo a mettere in discussione – agli occhi dei conservatori e del popolo delle parrocchie – la figura di Dio, indicato come “non cattolico”, il forte avvicinamento e dialogo con l’Islam, l’attenzione continua a favore di accoglienza e migranti in una critica per nulla dolce nei confronti dell’Occidente, specie in tempi di trumpismo. La morte di Papa Francesco completa il processo di desacralizzazione della figura papale che le clamorose dimissioni di Benedetto XVI aveva avviato: il Papa è un uomo, oltre che Vicario di Cristo, e con Francesco l’umano ha preso il sopravvento sul divino.
Sono lontani i tempi in cui, non riuscendo a prendere sonno, il Papa venuto da Sotto il Monte, Giovanni XXIII, si chiedeva: “Chi governa la Chiesa, tu o lo Spirito Santo? E allora, Angelo, va’ a dormire”. La Chiesa di Jorge Mario Bergoglio da Buenos Aires, un padre ragioniere da Portacomaro in provincia di Asti e una madre genovese, è una chiesa più gesuita che di Gesù. Gesuita nel discernere, nell’indicare, nell’abbozzare. E poi? E poi devi discernere tu, lasciarti guidare: perché non benedire le coppie dello stesso sesso? Ma certo: dieci secondi bastano. Un Dio che non è cattolico, la critica ai “cristiani di pasticceria”, quelli cioè che vanno in chiesa ma poi non applicano quello che dovrebbero applicare, l’accoglienza indiscriminata sia pure ricordando che il Catechismo dà agli Stati il diritto di regolare l’immigrazione (ma ricordandolo a denti stretti, un po’ come la modifica al Catechismo con la pena di morte: sì, è lecita ma siccome i tempi sono cambiati allora non lo è più).
Un Papato che è stato sotto il segno dell’accentramento, dell’uomo solo al comando per volontà divina e da lì, per li rami, giù verso tutta la Barca di Pietro e il gregge a lui affidato; insofferente alle categorie e le norme del diritto canonico, critico verso Ordini cavallereschi tipo i Cavalieri di Malta; un Papa confuso e confusionario che mentre con una mano predicava la misericordia e il perdono per tutti dall’altra ha aumentato la pena massima a cui si può essere condannati in Vaticano (35 anni anziché 30) e fatto celebrare processi come Vatileaks 2 con tanto di carcerazione e condanne. Sorridente con le folle, con chi non è a posto con la fede e quindi va accolto, ma severo con chi va in giro a convertire perché per lui questo non era essenziale né era essenziale lo zelo di chi pregava; buongiorno, buonasera, buon pranzo e nel frattempo la confusione dottrinale aumentava.
Francesco ha impostato la sua azione nella sua voglia di esserci, di farsi prossimo a tutti. Ha telefonato, rilasciato interviste in quantità mai viste, lette, udite o viste sin da quando, nel 1965, Alberto Cavallari del Corriere fece lo scoop intervistando Paolo VI, oggi Santo; un desiderio sacrosanto che è degenerato in voglia di piacere a tutti. Ha nominato personalità di sua estrema fiducia che non sempre sono state all’altezza o in alcuni casi rasentano il pittoresco o lasciano perplessi tipo il prefetto dell’ex Sant’Uffizio Victor Manuel Fernandez alias “Tucho besame mucho”, uno che annovera tra le sue opere teologiche un volumetto sui baci (roba che Joseph Ratzinger spostati proprio, e veloce, anche). Ha negoziato al ribasso accordi con il regime cinese per la libertà dei cinesi che professano il cattolicesimo nell’Associazione patriottica, “chiesa” per modo di dire creata nel 1958 da Mao Tze Tung che non riconosce l’autorità vaticana mentre 8 milioni di cattolici fedeli al Papa sono costretti a pregare negli scantinati o in aperta campagna; ha firmato encicliche nelle quali ha sposato allarmi sul cambiamento climatico più degni di Greta Thunberg che della Sposa di Cristo; ha instaurato un dialogo con parte dell’Islam credendo nell’abbraccio mentre spesso dall’altro lato si pensa alla sottomissione. La premessa era forse buona, il risultato è discutibile. Come con lo Ior, quella che è indicata a torto come la banca vaticana: avrebbe voluto cancellarla, poi però lo Ior è rimasto e già che c’era sono arrivate le grandi società di auditing ben pagate a controllare i bilanci.
A livello politico il Papa si è esposto, e non poco. Sia pure indicato come simpatizzante peronista in Argentina, si è espresso contro il mondo politico conservatore che – dal canto suo – non lo ha mai amato. Non ha amato Donald Trump, per esempio, contro il quale ha anche scritto una lettera invitando i vescovi americani a reagire alla politica trumpiana contro gli immigrati; ha strizzato l’occhio a Vladimir Putin parlando di Nato che “abbaiava” ai confini della Russia, definito Israele “invasore” di Gaza. Scivoloni gravissimi, a lui imputabili perché non mediati dall’abilità diplomatica del suo numero 2 (di nome ma non di fatto) Pietro Parolin, cardinale a capo della Segreteria di Stato. Aperturista verso il mondo Lgbtq+ ma contrario alla “frociaggine” nei seminari, ecologista che chiedeva di considerare anche gli ecopeccati e chiedeva – un po’ ironicamente – ai confessori domenicani di perdonare tutti. A livello italiano si è disinteressato delle nostre vicende politiche, permettendo alla Conferenza episcopale italiana di eleggere due presidenti di fila, Gualtiero Bassetti e Matteo Zuppi, entrambi cardinali, di evidenti simpatie a sinistra e con un interventismo in politica che ha scalzato tutto il pattuglione di deputati e senatori che nel mondo cattolico affondavano le radici.
Che cosa resterà di lui? Sarà il Papa della misericordia, ma anche e soprattutto quello dei migranti, pronto a benedire l’Ong dell’ex no-global Luca Casarini, uno che in privato se ne usciva con espressioni non molto salottiere verso le sante tonache che lo finanziano. Resterà il suo carattere campechano, alla mano come si dice in spagnolo, ma anche i suoi scatti come quando tirò uno schiaffo sulla mano di una fedele cinese un po’ troppo insistente ritraendosene di malumore. Resterà soprattutto un dubbio: chi curerà la sua eredità culturale e spirituale, visto che il Grande Accentratore aveva i suoi consiglieri del momento che poi, a tempo debito, sparivano senza nemmeno la promozione a vescovo in qualche diocesi almeno di Serie B, vedasi qualche gesuita indicato come potentissimo consigliere di Sua Santità.
Non c’è un segretario particolare forte come fu per Giovanni Paolo II, per esempio, con il fido Stanislao Dziwisz a fare da filtro e assistere il Papa sempre più anziano. Resta una grande confusione e passi in avanti subito bilanciati da passi indietro che hanno dato false illusioni a sinistra e scontenti a destra, oltre che ad ambo le parti. Un bel rebus per il successore, che dovrà probabilmente essere una figura di mediazione, con buone conoscenze della macchina curiale, per riportare il timone al centro e non sarà facile. Al netto di sorprese dello Spirito Santo, perché stiamo pur sempre parlando di Chiesa. I nomi? Luis Antonio Tagle, il “papa rosso”; Pietro Parolin il diplomatico di lungo corso con ottimi rapporti in America (con i trumpiani è altro paio di maniche); Matteo Zuppi che potrebbe essere il “Pietro Romano” della profezia di Malachia; e Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme e gran conoscitore della Questione mediorientale. Ma Dio solo lo sa, credete a noi, chi sarà il prossimo Vicario di Cristo.
Autore
Antonino D'Anna
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