Ha ragione Trump: senza produzione non c’è Occidente
Giovanni Sallusti · 9 Aprile 2025
Cari ascoltatori, mentre quasi tutti si esercitano nel disegnare la caricatura di Donald Trump come l’orco con il tupè che si diverte a dar fuoco al mappamondo, incluse indiscrezioni su squilibrio mentale e turpiloquio in incontri riservati (non che lui sia un esempio di stilnovismo né di bizantinismo), se volete capirci qualcosa seriamente potete leggere l’analisi di Edward Luttwak pubblicata oggi in prima pagina su Il Giornale, “Vi spiego le tariffe viste con gli occhi di Donald”. Luttwak ha una grande esperienza delle officine strategiche, diplomatiche e geo-economiche americane, e mastica bene quel che accade alla Casa Bianca e nei suoi dintorni. Nell’articolo spiega che la battaglia di Trump ha potenziali controindicazioni impattanti per noi, ma anche in prospettiva è una battaglia che ci riguarda.
Ecco alcuni estratti illuminanti: “Per decenni gli Stati Uniti hanno rappresentato un mercato illimitato per la maggior parte degli esportatori, consentendo a Paesi grandi e piccoli di trasferire la loro popolazione rurale da aziende agricole poco produttive a villaggi sovraffollati, in cui si sono moltiplicate industrie a bassa tecnologia. In questa prima fase di apertura unilaterale del mercato, i poveri di tutto il mondo sono diventati meno poveri, mentre la classe operaia americana ha iniziato a perdere il lavoro”.
Poi Luttwak aggiunge che questo modello di apertura unilaterale dei mercati verso il mondo e di qualificazione degli Stati Uniti come luogo di importazione di manufatti a basso costo prodotti ovunque “ha avuto un rovescio della medaglia. Negli Stati Uniti gli artigiani e i produttori a bassa tecnologia iniziavano a fallire, mentre i nuovi disoccupati venivano incoraggiati ad abbandonare i duri lavori industriali per nuove splendide posizioni nel settore dei servizi. Si diceva loro di dedicarsi all’analisi di marketing e al commercio con l’estero. Peccato che certe persone di mentalità ristretta abbiano notato che gli operai industriali che guadagnavano 30 dollari l’ora lavorando alle catene di montaggio, non diventavano in realtà dei commercianti di valuta estera che guadagnavano 3mila dollari l’ora. Al contrario, quando le loro fabbriche chiudevano, era molto più probabile che si presentassero come guardie di sicurezza dei centri commerciali, pagati 10 dollari l’ora”.
L’aggravamento ulteriore di questo rapporto sbilanciato tra Stati Uniti e il resto del mondo è stato causato dall’abbaglio anzitutto dell’élite democratica clintoniana: l’ingresso della Cina nel sistema del commercio globale ha legittimato la pratica della concorrenza sleale da parte del Dragone, che non conosce i diritti né nelle persone né del lavoro e che così è diventato la grande fabbrica del mondo. Ancora Luttwak: “Sono state le importazioni cinesi a far fallire la maggior parte delle fabbriche statunitensi, trascinando con sé la nostra base industriale residua. Aumentando la qualità a ritmi costanti e ampliando costantemente la capacità produttiva, gli industriali cinesi sono stati aiutati anche dai continui acquisti di obbligazioni in dollari, spingendo artificialmente il rialzo al biglietto verde e questo ha reso ancora più convenienti le importazioni cinesi”.
E ancora: “Il piano tariffario di Trump è semplice: ostacolare il libero scambio”, cioè quello farlocco con la Cina che pratica la concorrenza sleale, “in modo che le imprese industriali e artigianali sopravvissute possano tornare a prosperare, mentre altre aziende vecchie e nuove vengano rilanciate con tecnologia migliore”. Questo è il punto: “Trump è intenzionato a premiare i suoi sostenitori a basso reddito: non sorprende che gli editorialisti del Wall street journal e del Financial Times siano indignati, ma quello è l’obiettivo di Trump”.
Perché la sua battaglia ci riguarda? In sintesi, Luttwak spiega: possono l’America e l’Occidente “non essere più il luogo della produzione e diventare un luogo di soli consulenti di marketing”, o “di sociologi e di sessuologi”? Cioè un luogo dove ci sono solo consumatori che acquistano prodotti che provengono da catene dislocate altrove, con flussi commerciali che viaggiano sempre da fuori verso l’Occidente? La battaglia di Trump ha molte ragioni che ci riguardano, perché rinunciare all’idea di produzione è rinunciare al meglio dell’Occidente, all’idea fin rinascimentale di “homo faber”, dell’uomo che modifica il già dato, che trova la sua dignità nel lavoro; la rivoluzione industriale è stata un fenomeno tutto occidentale, ha portato livelli di benessere mai visti prima. Possiamo noi rinunciare a tutto questo? L’Occidente deve diventare una grande Rust belt? Ecco, questa sì che è un tema che dovrebbe interessare alle sinistre, sempre che esistano ancora. Intanto, secondo noi Trump ha ragione e la sua battaglia è anche nell’interesse di tutti; o almeno di tutti quelli che non vogliono finire schiavi del partito comunista cinese.