Qualcuno si ricorderà quello speciale odore dell’aria che si sentiva nel 1989, quando mentre eravamo seduti a tavola ai telegiornali veniva trasmessa la demolizione del Muro di Berlino, con le persone, i ragazzi, che camminavano su quel che era ancora in piedi, alcuni si portavano via per sé un pezzetto dei calcinacci. Era un profumo che non avevamo mai sentito, noi che abbiamo sempre vissuto nella libertà e nella pace, ma che si riconosceva subito: era la speranza, un brivido più grande di quello che ti prende quando una ragazza ti guarda negli occhi, migliore, che somiglia a quando sei lì mentre un neonato grida per la prima volta.
S’è sentita qualche cosa di simile nell’aria di ieri, come di un evento grande. Si è rotta una placenta che sapeva bruttamente di chiuso, in cui le molecole di ossigeno andavano inseguite. Si è rotta perché gli americani hanno fatto una cosa di cui si parla ogni giorno ma s’era perso come si fa, cioè votare nel nome di quel che si vuole. Non di quel che vogliono gli altri, di quel che si dice, di come si deve. In North Carolina hanno promosso Donald Trump a presidente repubblicano e nel medesimo giorno hanno bocciato il candidato repubblicano alle elezioni per governatore dello Stato, il vicegovernatore in carica Mark Robinson. In Missouri e in Montana hanno scelto in favore di Trump ma anche dell’aborto. Hanno deciso da soli di esercitare il voto disgiunto quando lo hanno ritenuto opportuno.
Come è possibile votare una cosa e il suo contrario nella stessa elezione? È possibile perché gli americani non hanno votato un’idea astratta, ma loro stessi e il loro corpo, cioè come vorrebbero veder cambiare (oppure no) la loro vita. Le idee astratte hanno la tendenza a diventare muri lisci, dei culti: se di un’idea ti vanno bene due cose su tre, devi scegliere anche la terza che non ti va, per un altrettanto astratto bene di tutti. In una democrazia liberale, cioè laica, se la terza cosa non ti va bene voti contro. Poi, se quella cosa passa all’esame del voto, ti adegui. Non prima.
D’altra parte, se si esce dalle città del buontempo, tipo New York e Los Angeles per intenderci, e se ci allontana dai due miti con cui al di qua dell’oceano ci riesce più facile leggere gli Stati Uniti – che sono o una sacralità a stelle e strisce che ci trasciniamo dal secondo dopoguerra, o il male assoluto predicato dal conglomerato woke, cioè due cose sbagliate, prive di umanità e di concretezza – quel che è rimasto è un’America che con la ragione del voto ha scelto di affrontare i suoi problemi; e in certo modo indica anche a noi del vecchio mondo non tanto come, quanto il fatto stesso che si può, senza che ci si debba incolonnare come dei topini in due o tre pensieri unici; i quali, peraltro, sempre più tesi nel loro gonfiore, prima o poi dovevano scoppiare, e infatti sono scoppiati.
Per questo Donald Trump ha vinto. Perché ha tirato fuori dai testi del ferocemente dem Bruce Springsteen i protagonisti delle sue bellissime canzoni, povero Bruce intrappolato a settant’anni fra la verità poetica di quel che canta e il commercio della sua poesia con gli avvelenatori del suo mondo. Non ha scritto della Silycon Valley, Bruce, ma di Tom Joad e di tutti gli altri Tom Joad che non si chiamano così. Trump li ha liberati dicendo la cosa più semplice: vi darò la possibilità di avere più soldi per vivere, e anche per tentare la fortuna. Non una donazione: una opportunità. Questo è il sogno americano, quel brivido che profuma così tanto che ha passato il mare e mi sa che sta arrivando fin qui.
È tornato nell’aria quel profumo che non sentivamo dal giorno in cui cadde il muro di Berlino
Giuseppe Braga · 7 Novembre 2024
Qualcuno si ricorderà quello speciale odore dell’aria che si sentiva nel 1989, quando mentre eravamo seduti a tavola ai telegiornali veniva trasmessa la demolizione del Muro di Berlino, con le persone, i ragazzi, che camminavano su quel che era ancora in piedi, alcuni si portavano via per sé un pezzetto dei calcinacci. Era un profumo che non avevamo mai sentito, noi che abbiamo sempre vissuto nella libertà e nella pace, ma che si riconosceva subito: era la speranza, un brivido più grande di quello che ti prende quando una ragazza ti guarda negli occhi, migliore, che somiglia a quando sei lì mentre un neonato grida per la prima volta.
S’è sentita qualche cosa di simile nell’aria di ieri, come di un evento grande. Si è rotta una placenta che sapeva bruttamente di chiuso, in cui le molecole di ossigeno andavano inseguite. Si è rotta perché gli americani hanno fatto una cosa di cui si parla ogni giorno ma s’era perso come si fa, cioè votare nel nome di quel che si vuole. Non di quel che vogliono gli altri, di quel che si dice, di come si deve. In North Carolina hanno promosso Donald Trump a presidente repubblicano e nel medesimo giorno hanno bocciato il candidato repubblicano alle elezioni per governatore dello Stato, il vicegovernatore in carica Mark Robinson. In Missouri e in Montana hanno scelto in favore di Trump ma anche dell’aborto. Hanno deciso da soli di esercitare il voto disgiunto quando lo hanno ritenuto opportuno.
Come è possibile votare una cosa e il suo contrario nella stessa elezione? È possibile perché gli americani non hanno votato un’idea astratta, ma loro stessi e il loro corpo, cioè come vorrebbero veder cambiare (oppure no) la loro vita. Le idee astratte hanno la tendenza a diventare muri lisci, dei culti: se di un’idea ti vanno bene due cose su tre, devi scegliere anche la terza che non ti va, per un altrettanto astratto bene di tutti. In una democrazia liberale, cioè laica, se la terza cosa non ti va bene voti contro. Poi, se quella cosa passa all’esame del voto, ti adegui. Non prima.
D’altra parte, se si esce dalle città del buontempo, tipo New York e Los Angeles per intenderci, e se ci allontana dai due miti con cui al di qua dell’oceano ci riesce più facile leggere gli Stati Uniti – che sono o una sacralità a stelle e strisce che ci trasciniamo dal secondo dopoguerra, o il male assoluto predicato dal conglomerato woke, cioè due cose sbagliate, prive di umanità e di concretezza – quel che è rimasto è un’America che con la ragione del voto ha scelto di affrontare i suoi problemi; e in certo modo indica anche a noi del vecchio mondo non tanto come, quanto il fatto stesso che si può, senza che ci si debba incolonnare come dei topini in due o tre pensieri unici; i quali, peraltro, sempre più tesi nel loro gonfiore, prima o poi dovevano scoppiare, e infatti sono scoppiati.
Per questo Donald Trump ha vinto. Perché ha tirato fuori dai testi del ferocemente dem Bruce Springsteen i protagonisti delle sue bellissime canzoni, povero Bruce intrappolato a settant’anni fra la verità poetica di quel che canta e il commercio della sua poesia con gli avvelenatori del suo mondo. Non ha scritto della Silycon Valley, Bruce, ma di Tom Joad e di tutti gli altri Tom Joad che non si chiamano così. Trump li ha liberati dicendo la cosa più semplice: vi darò la possibilità di avere più soldi per vivere, e anche per tentare la fortuna. Non una donazione: una opportunità. Questo è il sogno americano, quel brivido che profuma così tanto che ha passato il mare e mi sa che sta arrivando fin qui.
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Giuseppe Braga
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