Pedante, costoso e improduttivo: la grande fuga dal woke dell’industria americana

· 9 Settembre 2024


Sono le grandi multinazionali a controllare la politica, o è piuttosto vero il contrario? Nelle ultime settimane, abbiamo assistito a un fenomeno molto particolare e interessante, sintomatico di quanto l’agenda Woke sia non solo ridicola in se stessa, ma onerosa e pedante persino per quelle compagnie che da anni si mostrano sensibili e partigiane su argomenti come inclusività delle minoranze, femminismo, transessualismo, omofilia, e chi più ne ha più ne metta, fino ad arrivare a tematiche quali l’eco-sostenibilità, l’immancabile aumento della tassazione per le imprese più prolifiche, e maggiori interventismi statali.

All’indomani dell’omicidio di George Floyd, nel maggio 2020, i movimenti politici come Black Lives Matter e le associazioni per i diritti LGBTQ+ hanno aumentato la propria pressione sulle istituzioni governative e sulle aziende per adottare politiche interne più “inclusive”, come si suol dire. Questa agenda ha assunto il nome giornalistico woke o “wokismo”, anche se i suoi fautori hanno preferito l’acronimo DEI – Diversity, Equity, Inclusion. Questa agenda è stata istituzionalizzata a tutti gli effetti negli Stati Uniti durante l’amministrazione di Joe Biden, attraverso leggi e regolamenti, i quali, pur non imponendo direttamente queste agende alle grandi corporazioni e multinazionali, tuttavia esercitano una forte pressione su di esse attraverso incentivi fiscali, contratti governativi e accesso a fondi pubblici.

Le aziende, per non trovarsi escluse da questi benefici o per evitare sanzioni indirette, hanno adottato queste politiche in modo diffuso, creando dipartimenti interni dedicati alla DEI e vincolando le proprie operazioni ai parametri dettati da tali agende. Tanto per fare due esempi eclatanti: nel 2021, la Small Business Administration istituì un fondo per le aziende di proprietà di donne e altre minoranze, quali nativi americani e omosessuali (e ovviamente militari). Il Dipartimento dell’Agricoltura istituì invece un programma di condono dei prestiti agli agricoltori, a condizione che non fossero bianchi.

Nondimeno, l’adesione a queste linee guida ha portato con sé non poche contraddizioni: molte multinazionali promuovono pubblicamente la diversità e l’inclusione, ma di fatto applicano queste politiche solo superficialmente o le abbandonano quando diventano troppo onerose o poco redditizie. Ipocrisia? Forse. Normale gestione di un’azienda? Più probabile. Sembrerà strano ai più, ma le aziende esistono per produrre e distribuire prodotti e servizi, aumentando così la ricchezza media e garantendo lavoro alle persone. Le aziende non sono enti morali! Ma nei periodi di totalitarismo più o meno latente, le verità di base divengono sempre meno evidenti e appannaggio di pochi sguardi attenti. Altro che wokismo!

Adesso, con le nuove elezioni presidenziali USA alle porte, molte grandi aziende fanno un passo indietro e decidono di recidere in massa gli uffici DEI, imposti de facto nelle loro strutture aziendali. Microsoft ha licenziato la squadra dedicata all’agenda DEI a causa di “nuove esigenze aziendali”. Nonostante le critiche, l’azienda ha dichiarato di mantenere l’attenzione su diversità e inclusione, ma di fatto ha ridimensionato i suoi sforzi in vista del prossimo anno. Stesso discorso vale per Zoom, celebre società di telecomunicazioni, che all’inizio dell’anno ha rimosso le posizioni legate alla DEI, pur affermando che i principi della diversità e inclusione rimangono “parte del DNA dell’azienda”. Addirittura, Meta e Google avevano iniziato a decimare le posizioni DEI già dalla fine dell’anno 2023, mentre Tractor Supply, una delle più importanti catene americane per la vendita di prodotti per il bricolage, l’agricoltura e la cura di animali domestici, ha eliminato i ruoli DEI, ritirato tutti gli obiettivi legati all’agenda (comprese le politiche sulle emissioni di carbonio), concentrandosi così sulle reali priorità dell’America rurale. Lo stesso vale per altri grandi colossi, come Deere & Co., Snap, Tesla, DoorDash, Lyft, Home Depot, Wayfair, Pfizer e BlackRock. L’elenco è davvero lungo, come riporta Lorenza Formicola in un’ottima sintesi sulla Nuova Bussola Quotidiana.

“Le aziende che accolgono la diversità, l’equità e l’inclusività sono più capaci di affrontare le sfide, attrarre i migliori talenti e soddisfare le esigenze di diverse basi di clienti”, così si legge sul sito di un’importante società internazionale di consulenza manageriale. Eppure, questa tesi è confutata dai fatti, ancora prima che dalla logica elementare. Il successo di un’azienda si misura dalla sua capacità di soddisfare le esigenze del mercato e di garantire sostenibilità economica a lungo termine. Impegnarsi in politiche che impongono criteri non legati alla meritocrazia, come la diversità obbligatoria e le quote di rappresentanza, può facilmente diventare un ostacolo, drenando risorse e attenzione su aspetti che non necessariamente migliorano la qualità dei prodotti o servizi offerti. Inoltre, il concetto di DEI presuppone che la diversità e l’inclusività siano sempre valori di per sé positivi e necessari, indipendentemente dal contesto aziendale specifico o dalle dinamiche del mercato. Questo ragionamento non considera il fatto che, in molte situazioni, l’efficacia e la competitività di un’impresa non dipendono dalla conformità a questi criteri, ma dalla capacità di innovare, di operare con flessibilità e di adattarsi rapidamente ai cambiamenti.

Se persino multinazionali multimiliardarie considerano queste agende e uffici dedicati come un peso ormai inutile, come possono aziende più piccole e con meno risorse venire incontro a simili follie?


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