Il governo ha recentemente promosso una forma di controllo dell’evasione fiscale, tramite uno strumento definito “redditometro”: un misuratore del reddito, desumibile da un sistema di controllo sui consumi. Non è stato possibile capire le strategie di rilevazione dei consumi: certamente non a tappeto, ma secondo un sistema random. Si è formato un contraddittorio, che ha portato alla sospensione applicativa dello strumento, ma è evidente che il sistema di controllo non solo delle entrate, ma anche delle uscite, è di fatto un colabrodo, anche perché è sempre più difficile risalire alle responsabilità di governo della finanza pubblica.
Il problema delle entrate e dell’evasione fiscale è centrale nel nostro Paese e si è sempre cercato di porvi rimedio con modalità e forme che non hanno dato i risultati attesi. Accanto al problema dell’evasione fiscale, abbiamo l’evasione delle spese, se si può usare per analogia questo termine: troppe spese – non controllate per la mancanza di un’idonea regolamentazione e per la difficoltà, anche in questo caso, di risalire alle responsabilità – hanno contribuito ad allargare il debito pubblico, non meno delle mancate entrate fiscali. Il controllo va posto sulle entrate, ma in uguale misura sulle uscite, perché i due processi sono correlati ed interdipendenti, frutto di collusioni e di mancanza di controllo e di responsabilità di difficile individuazione. Le entrate contribuiscono alle finanze pubbliche e alla diminuzione del debito: quindi, chi versa vuole avere una cristallina trasparenza (accountability) delle modalità con cui vengono usate le entrate; questo richiede una doppia responsabilità da parte di chi chiede e paga rispetto a chi usa e come le risorse pubbliche raccolte: è l’eterno conflitto tra il Nord e il Sud, con accuse reciproche che in mancanza di un trasparente controllo generano conflitti e scontri perenni.
Molti dei processi di riforma, come il redditometro, si sono distinti per quello che potremmo definire il “miraggio della razionalità”, dominato dall’idea che i processi e le relative responsabilità possano essere definiti a priori in maniera razionale: è il frutto della cultura giuridica che si muove lontano dalla realtà per definire un sistema astrattamente ideale che si scontra con la realtà quando la deve governare . La realtà si muove in un’altra direzione. Nel Paese reale i processi e le relative responsabilità sono spesso condivisi, partecipati e frequentemente non sono attribuibili ai soggetti scelti in maniera “corretta” come sopra delineato. Un approccio più lucido nella definizione dei processi di riforma deve potersi calare nella realtà, avendo comprensione e conoscenza dei processi amministrativi, altrimenti diventa una complicazione. È necessario porre attenzione ed enfasi all’introduzione contestuale di strumenti e regole di rendicontazione idonee a dare trasparenza alle scelte politiche, ai risultati ottenuti, alle risorse raccolte ed impiegate rispetto ai cittadini, alle altre istituzioni presenti all’interno del Paese, agli attori operanti a livello sovranazionale come l’Ue per evitare conflitti e facili repliche. Se vogliamo ragionare in termini di chiarezza e di reciprocità fra differenti soggetti, ha più senso disciplinare il modo in cui ciascuno renderà sostanzialmente conto di ciò che ha fatto, piuttosto che il modo in cui ciascuno dovrebbe teoricamente comportarsi.
Il tema del controllo sulle entrate e sulle uscite trova un problema nella indefinita struttura di un Paese che oscilla perennemente tra Stato centrale e/o Sato federale: questa oscillazione va risolta, per non rimanere eternamente nel guado, perchè questo rende già di per sè meno efficaci le politiche pubbliche di sviluppo e di risanamento del paese: e i fatti lo dimostrano drammaticamente ogni singolo giorno. Accanto alla definizione del modello di Stato, è necessario definire in modo più chiaro anche il ruolo dello Stato nell’economia. Occorre sostenere il progressivo passaggio da Stato che interviene in maniera opaca nell’economia – sia come produttore di servizi sia impropriamente come è successo andando a sussidiare o sostenere aree di imprenditorialità privata inefficienti – a Stato regolatore, capace di sovrintendere lucidamente all’intervento dei privati e al ruolo del mercato.
Questi problemi sono oggi sul tavolo, irrisolti per motivi diversi che vanno dalle conflittualità politiche e sociali alla mancanza di competenze adeguate sia nel pubblico che nel privato in grado di sostenere un dialogo costruttivo e non un conflitto di accuse in cui tutti perdono. Nei casi recenti – Ilva, Ita – l’indecisione politica ha ritardato o compromesso la definizione di soluzioni che in un mercato difficile e variabile erano già più complesse e difficili che in precedenza. È proprio questa indecisione che spinge a costanti richieste di liberalizzazioni, specie nei settori pubblici come la sanità, dove il conflitto tra privato e pubblico sta minando la tenuta del sistema sanitario; anche in questo caso, compare il “miraggio della razionalità”. Si presuppone infatti che siano presenti nel sistema adeguate capacità di gestione e di regolazione e sopratutto che nelle Amministrazioni pubbliche – specie quelle periferiche – e nelle aziende di produzione operanti nei settori oggetto di tali possibili liberalizzazioni vi sia una sufficiente capacità di gestione e rispetto delle norme. Alla fine, il quadro che rimane è complesso e confuso dalla scarsa preparazione dei soggetti coinvolti e da un livello di moralità troppo basso perchè ci si possa fidare solo di fare delle norme sperando che siano attuate: il sistema socio-economico non sembra chiaramente governabile a causa di un quadro collusivo troppo invadente, alimentato da un modello di Stato incapace di risolvere la sua natura di Stato centrale o federale.
È opinione di chi scrive che il modello di democrazia rappresentativa si realizzi più pienamente nel rispetto delle autonomie. Le specificità di ogni territorio devono essere rappresentate direttamente dalle comunità locali, le cui istituzioni devono rispondere alle proprie comunità in termini di risultati ottenuti e di attività svolte; ma anche questa strada trova, a quanto pare, insuperabili ostacoli creati dall’idra burocratica delle amministrazioni centrali, ossessivamente centrate sulle norme: questa attitudine finisce per rendere il percorso amministrativo e politico una sorta di gara ad ostacoli, già perdente all’inizio: ancora una volta, scatta la maledizione del “miraggio della razionalità”.
Chi spende i nostri soldi deve rispondere di come li spende. L’autonomia è tutta qui
Fabrizio Pezzani · 6 Giugno 2024
Il governo ha recentemente promosso una forma di controllo dell’evasione fiscale, tramite uno strumento definito “redditometro”: un misuratore del reddito, desumibile da un sistema di controllo sui consumi. Non è stato possibile capire le strategie di rilevazione dei consumi: certamente non a tappeto, ma secondo un sistema random. Si è formato un contraddittorio, che ha portato alla sospensione applicativa dello strumento, ma è evidente che il sistema di controllo non solo delle entrate, ma anche delle uscite, è di fatto un colabrodo, anche perché è sempre più difficile risalire alle responsabilità di governo della finanza pubblica.
Il problema delle entrate e dell’evasione fiscale è centrale nel nostro Paese e si è sempre cercato di porvi rimedio con modalità e forme che non hanno dato i risultati attesi. Accanto al problema dell’evasione fiscale, abbiamo l’evasione delle spese, se si può usare per analogia questo termine: troppe spese – non controllate per la mancanza di un’idonea regolamentazione e per la difficoltà, anche in questo caso, di risalire alle responsabilità – hanno contribuito ad allargare il debito pubblico, non meno delle mancate entrate fiscali. Il controllo va posto sulle entrate, ma in uguale misura sulle uscite, perché i due processi sono correlati ed interdipendenti, frutto di collusioni e di mancanza di controllo e di responsabilità di difficile individuazione. Le entrate contribuiscono alle finanze pubbliche e alla diminuzione del debito: quindi, chi versa vuole avere una cristallina trasparenza (accountability) delle modalità con cui vengono usate le entrate; questo richiede una doppia responsabilità da parte di chi chiede e paga rispetto a chi usa e come le risorse pubbliche raccolte: è l’eterno conflitto tra il Nord e il Sud, con accuse reciproche che in mancanza di un trasparente controllo generano conflitti e scontri perenni.
Molti dei processi di riforma, come il redditometro, si sono distinti per quello che potremmo definire il “miraggio della razionalità”, dominato dall’idea che i processi e le relative responsabilità possano essere definiti a priori in maniera razionale: è il frutto della cultura giuridica che si muove lontano dalla realtà per definire un sistema astrattamente ideale che si scontra con la realtà quando la deve governare . La realtà si muove in un’altra direzione. Nel Paese reale i processi e le relative responsabilità sono spesso condivisi, partecipati e frequentemente non sono attribuibili ai soggetti scelti in maniera “corretta” come sopra delineato. Un approccio più lucido nella definizione dei processi di riforma deve potersi calare nella realtà, avendo comprensione e conoscenza dei processi amministrativi, altrimenti diventa una complicazione. È necessario porre attenzione ed enfasi all’introduzione contestuale di strumenti e regole di rendicontazione idonee a dare trasparenza alle scelte politiche, ai risultati ottenuti, alle risorse raccolte ed impiegate rispetto ai cittadini, alle altre istituzioni presenti all’interno del Paese, agli attori operanti a livello sovranazionale come l’Ue per evitare conflitti e facili repliche. Se vogliamo ragionare in termini di chiarezza e di reciprocità fra differenti soggetti, ha più senso disciplinare il modo in cui ciascuno renderà sostanzialmente conto di ciò che ha fatto, piuttosto che il modo in cui ciascuno dovrebbe teoricamente comportarsi.
Il tema del controllo sulle entrate e sulle uscite trova un problema nella indefinita struttura di un Paese che oscilla perennemente tra Stato centrale e/o Sato federale: questa oscillazione va risolta, per non rimanere eternamente nel guado, perchè questo rende già di per sè meno efficaci le politiche pubbliche di sviluppo e di risanamento del paese: e i fatti lo dimostrano drammaticamente ogni singolo giorno. Accanto alla definizione del modello di Stato, è necessario definire in modo più chiaro anche il ruolo dello Stato nell’economia. Occorre sostenere il progressivo passaggio da Stato che interviene in maniera opaca nell’economia – sia come produttore di servizi sia impropriamente come è successo andando a sussidiare o sostenere aree di imprenditorialità privata inefficienti – a Stato regolatore, capace di sovrintendere lucidamente all’intervento dei privati e al ruolo del mercato.
Questi problemi sono oggi sul tavolo, irrisolti per motivi diversi che vanno dalle conflittualità politiche e sociali alla mancanza di competenze adeguate sia nel pubblico che nel privato in grado di sostenere un dialogo costruttivo e non un conflitto di accuse in cui tutti perdono. Nei casi recenti – Ilva, Ita – l’indecisione politica ha ritardato o compromesso la definizione di soluzioni che in un mercato difficile e variabile erano già più complesse e difficili che in precedenza. È proprio questa indecisione che spinge a costanti richieste di liberalizzazioni, specie nei settori pubblici come la sanità, dove il conflitto tra privato e pubblico sta minando la tenuta del sistema sanitario; anche in questo caso, compare il “miraggio della razionalità”. Si presuppone infatti che siano presenti nel sistema adeguate capacità di gestione e di regolazione e sopratutto che nelle Amministrazioni pubbliche – specie quelle periferiche – e nelle aziende di produzione operanti nei settori oggetto di tali possibili liberalizzazioni vi sia una sufficiente capacità di gestione e rispetto delle norme. Alla fine, il quadro che rimane è complesso e confuso dalla scarsa preparazione dei soggetti coinvolti e da un livello di moralità troppo basso perchè ci si possa fidare solo di fare delle norme sperando che siano attuate: il sistema socio-economico non sembra chiaramente governabile a causa di un quadro collusivo troppo invadente, alimentato da un modello di Stato incapace di risolvere la sua natura di Stato centrale o federale.
È opinione di chi scrive che il modello di democrazia rappresentativa si realizzi più pienamente nel rispetto delle autonomie. Le specificità di ogni territorio devono essere rappresentate direttamente dalle comunità locali, le cui istituzioni devono rispondere alle proprie comunità in termini di risultati ottenuti e di attività svolte; ma anche questa strada trova, a quanto pare, insuperabili ostacoli creati dall’idra burocratica delle amministrazioni centrali, ossessivamente centrate sulle norme: questa attitudine finisce per rendere il percorso amministrativo e politico una sorta di gara ad ostacoli, già perdente all’inizio: ancora una volta, scatta la maledizione del “miraggio della razionalità”.
Autore
Fabrizio Pezzani
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