La “setta globale” di quelli che odiano la propria cultura: ecco chi ha ucciso Kirk

· 15 Settembre 2025


Trentacinque anni fa il crollo del comunismo ci coglieva ancora piuttosto giovani e senza dubbio molto ottimisti sul futuro dell’Occidente. Se morivano uno dietro l’altro i regimi comunisti, vi era però una metastasi inarrestabile che si spargeva ovunque. Un coacervo purulento di ideologie – sovietista, maoista, terzomondista (Lenin, Mao e Houari Boumédiène, per semplificare) – investiva in pochi anni tutto il mondo occidentale. Non era l’ideologia idonea per un vero assalto al cielo, né per un qualsivoglia ribaltamento dei rapporti di produzione – e infatti i governi proseguirono imperterriti per la loro strada riassumibile in “più tasse, più debito, più spesa pubblica” – ma era perfettamente adeguata a distruggere il nostro mondo dall’interno. Questa subcultura, che tendeva a mettere in stato di accusa tutta la civiltà occidentale, vedeva un’unica fonte del male: il maschio eterosessuale euro-americano. E attecchiva in tutte le cittadelle del sapere: da Berkeley a Harvard, da Londra alla Sorbona, da Heidelberg a Palermo.

L’Occidente che aveva battuto il comunismo incominciava a odiare se stesso con tutte le sue forze: perlopiù accademiche. I giovani studenti occidentali in poco tempo diventarono come automi, sempre più somiglianti a persone finite nelle grinfie di una setta, satanica o meno, che istigava loro a odiare la propria cultura.

Ed è qui che, solo pochi anni fa, si colloca l’impegno di Charlie Kirk, un giovane cristiano, conservatore, convinto dell’importanza del dialogo e sostenitore del governo limitato, del free speech e del capitalismo: in una parola dell’Occidente. Charlie aveva capito che lo scontro delle idee era cruciale, che l’Occidente stava perdendo le sue forze migliori proprio a causa del lavaggio del cervello in atto nei migliori quartieri accademici. E aveva deciso di dedicare la sua vita a una battaglia culturale per l’anima dell’America proprio nei campus americani, in mezzo a quegli automi morali che dovevano essere risvegliati. Il lavoro di Charlie – che usava certo abbondantemente l’ironia, ma non ha mai mancato di rispetto a nessun individuo, trans, sinistrorso, fluido – era un lavorio continuo per deprogrammare la gioventù americana. E ovviamente stava avendo larga eco ed enorme successo.

L’omicidio di Charlie arriva quindi da molto lontano, viene dalla pratica leninista, dalla lotta armata comunista (colpirne uno per educarne cento), dalla cultura follemente diffusa oggi secondo la quale le parole sono aggressioni. E purtroppo questo omicidio avrà enormi ripercussioni. Perché è vero che i giovani conservatori stanno giurando che raccoglieranno la torcia di Charlie, ne terranno vive le idee e la memoria, ma in cuor loro sono ovviamente terrorizzati.

Ciò che più spaventa è che un uomo pacifico e dialogante, che voleva discutere civilmente con tutti, possa essere fatto passare oggi per un violento. Sul web si è ormai scatenata l’antico e vergognoso gioco maoista. Il leader cinese in “Servire il popolo”, del 1944, sosteneva: “Tutti gli uomini devono morire, ma la morte può avere significati diversi. Morire per il popolo è più pesante del Monte Tai; morire al servizio dei fascisti, degli sfruttatori e degli oppressori è più leggero di una piuma”.

Più in generale si utilizza il vecchio detto “chi semina grandine raccoglie tempesta”, senza neanche comprendere che Charlie non ha mai seminato grandine in alcun modo. Ha solo combattuto, con classe e ironia, il lavaggio del cervello cui i giovani sono sottoposti da decenni nelle università americane. Da Odifreddi a Friedman a Matthew Dowd, i commenti più pesanti si sono susseguiti dal momento della sua morte. Percival Everett, intervistato dal Corriere, è sembrato addirittura che depotenziasse l’accaduto, riconducendolo alla “natura degli Stati Uniti, un Paese ossessionato dai fucili e dalla violenza”.
L’America si ritrova di fronte a una violenza politica che ricorda gli anni Sessanta e può essere un indizio e un inizio di una guerra civile a bassa intensità. La morte di Charlie ricorda da vicino – con buona pace di Odifreddi – proprio l’omicidio di Martin Luther King Jr. Ma vi è una grossa differenza: allora nessuno sosteneva che Martin Luther King jr fosse un violento – Bono cantò giustamente nel 1984 “one man came in the name of love” – che le sue parole gli avessero procurato quasi inevitabilmente il proiettile fatale che avrebbe posto fine alla sua esistenza.

Gli omicidi politici nascono per cancellare per sempre il nemico assoluto: della tua razza, della tua classe o delle tue visioni politiche e sociali. Charlie Kirk è caduto perché voleva conversare e lo faceva in modo assai convincente. Spero che tutti coloro che come lui vogliono salvare la civiltà occidentale, in primo luogo da se stessa, sappiano reagire con il massimo grado di raziocinio. Ma temo che la radicalizzazione dello scontro politico ci spingerà verso lidi inesplorati e dai quali sarà difficile uscire.

(Tratto da lettera150.it)


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