Tutto il D-Day è nel paracadute appeso a una chiesa

· 6 Giugno 2024


Quando arrivate alla graziosa cittadina di Sainte-Mère-Église, alla periferia ovest degli sbarchi (come tutti i paesi sulla costa nord francese, anch’essa vive su musei, residuati, memorabilia della Seconda guerra mondiale), troverete che la locale cattedrale è adornata all’esterno con il manichino di un uomo in divisa, appeso per i fili di un paracadute impigliato nel campanile. Quest’uomo è una specie di patrono, si chiama John Steele, e la sua figura accanto a quella di un altro soldato e a quella della Vergine Maria (sic) è anche parte di una scena semisacra dipinta sulla più bizzarra fra le vetrate della chiesa.
Perché? Mi sa che Sainte-Mère-Église (al contrario delle consorelle che, edificate sul lato più nobile di quella fetta di storia della Normandia e del mondo, hanno vestigia a sufficienza per celebrare la guerra di liberazione) voleva un suo particolare eroe e non ce l’aveva. Però una cosa era successa.

La notte fra il 5 e il 6 giugno 1944, John Steele, parà americano dell’82.a Divisione, reggimento 505, compagnia F, viene lanciato con molti altri su Sainte-Mère-Église, ma la mira è sbagliata e tutti i soldati finiscono nel centro del paese, in quel momento ben illuminato a causa di un incendio e zuppo di tedeschi. I quali, figurarsi, fanno il tiro al piccione: Steele, ferito a una gamba da uno spezzone di granata, cade sul campanile e rimane impigliato, mentre venti metri sotto si sta mettendo male. Cerca di liberarsi col coltello ma il coltello gli cade. Ormai diventato un bersaglio anche per le reclute, si finge morto, così da non attirare l’attenzione. Funziona. Alcune ore dopo, il soldato tedesco Rudolf May si accorge che il morto del campanile è vivo: staccato da lì e fatto prigioniero, Steele tre giorni dopo riuscirà a fuggire e a tornare dai suoi.
Che gli sbarchi a Steele non venissero bene era già intuibile dall’anno prima, quando, paracadutato sulla Sicilia, si era rotto una gamba nell’atterraggio; ma poi, per l’amore del vero, si è distinto, durante i sei anni del conflitto, per aver combattuto su tutti i fronti europei e anche in Africa. Tuttavia, stavolta qui di intrepida iniziativa non ce n’era stata, e la tentazione che mi stava venendo era di scrivere la storia del soldato diventato eroe per aver guardato una battaglia.

Ma avrei sbagliato. Perché, a pensarci bene, John Steele, con quella sfiga che lo fa diventare l’uomo più fortunato di quella notte, e con il caso che lo lascia e se lo riprende a ripetizione (sopravviverà fino all’armistizio finale, ma non al cancro alla gola, che lo ucciderà nel 1969, a 57 anni) è un monumento al destino, alla fortuna (in latino), alla condizione umana. Alla nostra immorale natura. Che non è capace di evitare la guerra ma è indiavolata nel cercare di farci rimanere vivi, intendo uno per uno, ciascuno. Ed è per questo che, anche se lo sappiamo, non ci accorgiamo mai che per morire basta così poco. Solo in Italia, che è in pace da settant’anni, ogni anno in settemila fanno ciao in incidenti stradali.

L’atto eroico del parà John Steele, che si vede di più solo a causa di una contingenza, è stato l’umile e grandioso rimanere al mondo un altro po’; ed è identico, per qualità, allo sforzo che ogni giorno facciamo per tirare a campare, magari con qualche azione generosa ogni tanto, e ogni tanto facendo il morto; ma sempre con le mani tese, quando il coltello ci cade, per afferrare una cucchiaiata di coraggio, un’idea che ci tenga appesi a un paracadute invisibile, o a quel che di casuale grazie al quale finora non siamo finiti sotto il quindici, direzione Rozzano.

(Una nota. Il secondo soldato dipinto sulla finestra della chiesa è il parà Ken Russel: impigliatosi anch’egli, riuscì a liberarsi. Piuttosto dimenticato, tranne che nel memorial del cimitero americano a Colleville, è invece il sergente John Ray: il quale, colpito al petto appena atterrato nella piazza, trovò la forza di sparare al tedesco che, dopo di lui, stava prendendo di mira i due commilitoni indifesi. John Ray aveva un’ottima mira. Morì subito dopo).


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