Abbiamo gli Atenei peggiori d’Europa: i docenti sono come negli anni Settanta, poveri noi

· 27 Maggio 2024


Una trentina di anni fa, dopo il crollo del comunismo e nel corso della crisi risolutiva di un regime politico fondato sulla guerra fredda, questo Paese era messo male, ma non malissimo. Una serie di problemi sembravano poter essere affrontati con un minimo di coraggio: sarebbe bastata una stagione di riforme che avrebbe ridisegnato in primo luogo le relazioni fra nord e sud, fra chi la borsa la riempie e chi la svuota, e a cascata tutti gli altri nodi di un paese mal unificato e ancor peggio governato sarebbero venuti al pettine. Dopo tre decenni la politica non ha individuato nessuna soluzione, non solo, ma la classe al potere non ha fatto altro che nascondere le magagne italiche al punto che oggi stiamo scendendo in un terzo mondo indifferenziato senza neanche un minimo di consapevolezza di ciò che ci ha condotto in questa situazione. 

Per fare un solo esempio, nel 1990 il Mezzogiorno d’Italia era certamente un’area fra le meno sviluppate dell’Occidente, ma nessun luogo post comunista si presentava sulla scena con un reddito pro-capite superiore. Dopo appena un’altra generazione di decrescita infelice si contano sulle dita di una mano le aree dell’Est Europa meno ricche del Sud. In breve, dal comunismo si può uscire, dall’assistenzialismo no. Il risultato, in termini di non sviluppo, delle selvagge politiche di redistribuzione territoriale della ricchezza, non lascerebbe spazi al meridionalismo piagnone che caratterizza il dibattito pubblico. Ma così ovviamente non è. La realtà viene sempre aggirata dal fabulismo della cultura politica italiana, che dall’unificazione in poi è al lavoro per produrre metafore organiciste sempre più impermeabili al duro scontro con i fatti.

Fra le aree del dibattito pubblico totalmente sottratte all’analisi razionale delle cose come stanno, un posto di spicco spetta all’istruzione superiore, al mondo ovattato e marcescente dell’accademia, nel quale chi vi scrive ha passato l’intera esistenza. Fra gli universitari italiani, dall’ultimo scalzacani con cattedra, alla capa della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), il gioco maggiormente diffuso è quello dello struzzo per negare il totale fallimento di uno dei più importanti strumenti di modernizzazione del Paese. I fatti sono in sintesi questi. Se non ci fosse la Romania, l’Italia sarebbe il fanalino di coda in Europa dal punto di vista della percentuale di laureati. Magra consolazione, giacché la Romania ci supera comunque in termini di percentuale di studenti laureati nelle materie scientifiche. Se la media dell’Unione è di oltre il 40 per cento di laureati fra i trentenni, in Italia se ne contano a malapena uno su quattro. Statistiche con ogni evidenza da Paese sottosviluppato.

Secondo la classifica mondiale delle università, appena uscita, il primo ateneo italiano, Roma La Sapienza si colloca al centoventiquattresimo posto nel mondo, qualche università come Padova o Milano sotto il duecentesimo e tutte le altre semplicemente non pervenute. È evidente che una lingua periferica quale l’italiano garantisce risultati mediocri, ma ormai tutto ciò che non è inglese è in sé e per sé marginale e quindi si potrebbe almeno competere adeguatamente con tedeschi e francesi. Ovviamente così non è. Per fornirvi un solo dato al di fuori dell’anglosfera, l’Olanda ha la bellezza di sei università fra le prime cento del mondo. Sei in più dell’Italia, che, con tutto il rispetto dovuto agli abitanti delle Province unite, avrebbe ben altra tradizione accademica. 

La caratteristica tipica di questo Paese è che il sistema universitario è affidato alla autorganizzazione dei docenti. Esattamente come i magistrati, e verrebbe da dire, con risultati non dissimili, i professori si “autogovernano”: il grande studioso e riformatore Franco Basaglia aveva tentato di rivedere tutta la percezione sociale del disagio psichico, ma non ha mai immaginato di lasciare che i matti gestissero i manicomi. Ovunque nel mondo universitario esistono proprietari, azionisti, amministratori e i docenti sono solo una parte, certo non irrilevante, del tutto. In Italia i professori, ordinari si intende, sono l’alfa e l’omega dell’intero sistema, il perno intorno al quale ruotano tutti i pianeti dei non docenti, degli associati, e se Iddio vuole, anche degli studenti, il vero corpo estraneo dell’università. 

La Costituzione stabilisce che “i capaci e meritevoli” hanno un vero e proprio diritto a raggiungere i più alti gradi degli studi. Ma su cosa trova quel manipolo di fortunati la carta nulla dice.

Dopo tredici anni di istruzione nel quale maestri e professori si interessano anche troppo del bambino e dell’adolescente, il giovane consumatore di cultura superiore viene totalmente abbandonato a se stesso. Se si cimenta nelle scienze storico-sociali il giovane respirerà un clima ben noto. Ascolterà i dotti che lo indottrineranno sul fatto che la globalizzazione impoverisce il mondo e consolida i poteri forti e che il mercato, segnatamente se globale, non è altro che scambio ineguale e ingiustizia sociale.

Se invece seguirà un percorso STEM, fatti salvi i doverosi richiami allo scempio che il genere umano sta facendo nei confronti del pianeta, dovrà percorrere con l’aiuto degli amici i meandri oscuri della burocrazia accademica per poi trovarsi di fronte a corsi nei quali il più delle volte due più due fa ancora quattro. In tutti i casi incontrerà però un mondo che esalta il pubblico e demonizza tutto ciò che è privato. L’università italiana, ben al di là delle sue disfunzionalità sistemiche, si rivela un potente fattore di arretratezza proprio perché moltiplica e diffonde una subcultura (certamente già presente nella società italiana) che si nutre di una mentalità anticapitalista da festa dell’Unità anni Settanta. Se l’unica vera “ricchezza delle nazioni” risiede nella loro popolazione, è anche evidente quest’ultima deve avere buone conoscenze e una corretta rappresentazione della realtà. Proprio ciò che l’università italiana non è in condizioni di fornire.


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