Odiatori dell’autonomia arrendetevi: il sud è nato federalista

· 24 Maggio 2024


Il federalismo e l’autonomia non godono in Italia di buona stampa. Siamo fin troppo abituati a sentire, nel dibattito pubblico, espressioni preoccupate ogni volta che si propone una riforma dello Stato che si muova in questa direzione: il federalismo dividerebbe l’Italia, premierebbe i più ricchi, affosserebbe il Sud, creerebbe due Italie, e via continuando con una stucchevole tiritera di frasi fatte e ragionamenti à la carte. Sono soprattutto le classi dirigenti meridionali e la sinistra che cercano in tutti i modi di avallare questa narrazione. La quale non solo è basata su dati falsi, ma andrebbe addirittura rovesciata: un federalismo e un’autonomia ben concepiti potrebbero addirittura essere per il Sud quell’occasione storica di rinascita che invano è stata cercata per decenni e decenni.

Che non si tratti di una tesi campata in aria, lo si può desumere dalla lettura delle opere dei padri del meridionalismo, quelli operanti all’inizio del secolo scorso, i quali erano in maggioranza critici del centralismo che aveva assunto lo Stato nazionale dopo l’Unità. Essi criticavano l’applicazione meccanica delle istituzioni sabaude anche al Sud (la cosiddetta “piemontesizzazione”). E contestavano alla nuova classe dirigente che si era formata, in buona parte di origine settentrionale, di non conoscere nemmeno il nostro Mezzogiorno di cui avevano un’immagine olografica o di maniera assolutamente non corrispondente alla realtà (si pensi alle lucide analisi geografiche e orografiche di Giustino Fortunato). Essi contestavano inoltre ai piemontesi di essersi alleati con le classi dirigenti più retrive del Mezzogiorno, quelle che ne frenavano lo sviluppo e la naturale evoluzione democratica (questo discorso venne sviluppato soprattutto da Guido Dorso, autentico e convinto federalista).

Ceti dirigenti più moderni si sarebbero invece formati se il Sud avesse fatto da solo, rendendo autonomi e responsabili i cittadini che, conoscendo il territorio e spesso anche direttamente i candidati al potere, avrebbero potuto scegliere in perfetta autonomia i propri governanti. Sceglierli avrebbe significato anche responsabilizzarli, rendendoli quindi giudicabili a fine mandato. E che dire dell’altro grande principio federalista, quello della sussidiarietà, cioè la necessità di affidare le funzioni amministrative a entità grandi solo quando le più piccole sono impossibilitate a farlo? Su questo principio insisté particolarmente Luigi Sturzo, un altro dei grandi meridionalisti federalisti della nostra storia, il fondatore di quel partito cattolico che avrebbe seguito nel secondo dopoguerra tutt’altre, e centralistiche, vie.

Certo, il Sud era arretrato anche culturalmente, da cui la necessità di diffondere l’istruzione scolastica e adattarla alle situazioni di fatto dell’Italia meridionale (la scuola fu oggetto della battaglia di Umberto Zanotti Bianco). Spezzare il nesso che teneva unite classi dirigenti settentrionali (e nazionali) e forze retrive del Sud avrebbe poi avuto un altro utile effetto benefico, diciamo sulla morale pubblica. Il più strenuo avversario della corruzione in politica, Gaetano Salvemini, fu anch’egli un coerente federalista. Potremmo continuare in questa carrellata, ma forse vale qui la pena di osservare solamente che presto lo scenario sarebbe cambiato. Nella seconda metà del secolo, infatti, il centralismo sarebbe ritornato in auge. Fu la stagione della Cassa per il Mezzogiorno: enormi risorse furono messe a disposizione, in modo assistenzialistico, delle regioni meridionali, con i risultati che ben conosciamo. Probabilmente se si fosse permesso al Sud di “salvarsi” da solo, se cioè si fosse ascoltata la lezione dei meridionalisti classici, le cose sarebbero andate diversamente.


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